Cultura

La geografia emotiva della petite France

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Michel Bussi Un’intervista con lo scrittore, autore del noir «Non lasciare la mia mano». La narrativa di genere come un accurato e «scientifico» lavoro di inchiesta sulla realtà. I misteri nascosti dietro le cartoline patinate della Normandia, della Corsica e della Réunion

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 21 giugno 2017

È tempo di vacanze quando è denunciata la sparizione, forse l’omicidio, ma il corpo non si trova, di una giovane turista. L’episodio scuote l’isola della Réunion, un vulcano di più di duemila metri circondato da deserti di cenere, foreste tropicali e barriere coralline. Le indagini, guidate dalla comandante della Gendarmeria locale, Aja Purvi, e dal suo luogotenente, Christos Konstantinov, faranno però emergere anche altri misteri e renderanno evidente come mille contrasti, anche di natuta sociale, covino sotto l’apparenza festosa di questo paradiso tropicale su cui batte la bandiera francese malgrado ci si trovi nel bel mezzo dell’Oceano Indiano.

Tra gli autori di noir più affermati del panorama francese, con Non lasciare la mia mano (edizioni e/o, pp. 368, euro 16), Michel Bussi conferma il suo grande talento e la sua capacità di sorprendere e spiazzare i lettori, calando in angoli di mondo indimenticabili vicende sordide e terribili.

Luoghi d’incanto come il villaggio normanno di Giverny, dove ha vissuto e dipinto Monet, le spiagge della Corsica e l’isola tropicale della Réunion, si trasformano in altrettante trappole mortali. A prima vista i suoi romanzi si presentano come una sorta di adattamento naturale del classico mistero della camera chiusa cui poi si aggiunge la sensazione che il passato ritorni senza fine e che i pericoli più grandi si possano celare tra i nostri cari. Non abbiamo scampo?

Senza dubbio il fatto di ambientare le mie storie in piccoli centri di provincia o, come nel caso degli ultimi due romanzi pubblicati in Italia, su delle isole, aggiunge un senso di isolamento, quasi di prigionia o se si vuole una dimensione claustrofobica alle vicende. Sottrarsi al pericolo incombente diventa sempre più difficile in questi casi. Ma strettamente intrecciato a questo primo elemento ve ne sono altri che riguardano l’ambivalenza del nostro rapporto con il passato che mescola una certa malinconia, o nostalgia in alcuni casi, con dubbi spesso inespressi e quesiti mai chiariti fino in fondo, o il fatto che in effetti è nelle famiglie e negli affetti più prossimi che si possono celare le insidie maggiori.

Come autore di noir di grande successo sente che sta esplorando la parte in ombra dell’esistenza?

In realtà credo che se questo è in qualche modo il punto di partenza, l’approdo del mio lavoro possa essere ritenuto di tutt’altro genere. Sono portato a descrivere gli autori di romanzi polizieschi o di storie di assassinii come dotati di grande umanità, nel senso che dedicano molto tempo a cercare di comprendere e a mettere in gioco la loro capacità di provare empatia per le figure responsabili di atti inqualificabili e senza alcuna scusa.

Alla base di questo tentativo costante di capire l’incomprensibile, che è poi una delle chiavi del «giallo», non ci può che essere una visione irriducibilmente positiva del mondo.

Lei ha insegnato a lungo geografia all’Università di Rouen e anche nei suoi romanzi il territorio sembra avere un ruolo preciso. Come nascono questi «luoghi del delitto»?

In realtà, per quanto paradossale possa apparire faccio più «ricerche sul campo« per le mie storie che nell’ambito del lavoro universitario. Si tratta di un incrocio tra una sorta di «geografia emotiva», frutto di una costante rielaborazione e mescolamento di ricordi e studi, e lo spulciare in continuazione le carte geografiche. È questa esplorazione a vari livelli dei luoghi, e dei misteri che possono celare, la mia prima molla quando inizio a scrivere.

Nei suoi romanzi non lascia nulla al caso. La sua scrittura sembra il resoconto di una esplorazione. In «Non lasciare la mia mano» sono minuziosamente descritti i contorni della Réunion, descrivendo al tempo stesso il contrasto tra l’immagine da cartolina del luogo, meta del turismo, e la vita quotidiana degli abitanti, oltre al razzismo che affiora anche nel rapporto tra Aja e Christos. È alla ricerca del rovescio della medaglia?

Volevo descrivere come l’universo a prima vista paradisiaco dell’isola nascondesse in realtà anche miseria ed emarginazione, che spesso i turisti fingono di non vedere. E come il razzismo, oggi montante in tutta la realtà sociale francese, fosse ben presente anche qui. Così, ho messo a confronto Aja, che è di origine creola e indiana, e Christos che arriva invece direttamente dalla Francia. La convivenza alla Réunion non è sempre facile, ma lì il vero confine tra le persone è prima di tutto di natura sociale.

Però, al pari di molti autori recenti lei sembra preferire uno sguardo meno diretto sulla realtà politica e sociale, a differenza di quanto accadeva con il cosiddetto «néo-polar» che si caratterizzava per il suo profilo engagé…

Naturalmente mi sono nutrito a lungo dei romanzi di Manchette, iniziatore del néo-polar oltre quarant’anni fa, ma al tempo stesso apprezzo scrittori che indagano soprattutto la miseria della condizione umana e prediligono questa osservazione alla critica aperta della realtà politica e sociale.

Da lettore ho amato i classici del giallo, da Maurice Leblanc a Agatha Christie, come anche la fantascienza di Ray Bradbury o di René Barjavel. Allo stesso modo, tra i francesi, apprezzo Japrisot, Chattam, Grangé e soprattutto Serge Brussolo, uno scrittore purtroppo sottostimato dalla critica che ha scritto di tutto, dai romanzi storici al poliziesco fino alla science fiction.

E da specialista delle geografia elettorale francese quale è come valuta il risultato delle elezioni che si sono svolte di recente nel suo paese?

Per limitarsi alla geografia del voto, si può segnalare che spesso hanno votato per Le Pen alle presidenziali, e anche alle legislative, gli abitanti delle zone più povere e più fuori mano e per Macron il ceto medio e coloro che vivono nelle grandi città. Perfino dove abito io, in Normandia, che per molti versi rappresenta una sorta di Francia in miniatura con tutte le contraddizioni e le differenze che attraversano l’intero paese, nelle vecchie zone operaie ha vinto o l’estrema destra o l’astensione. Certo non è un buon segnale.

Torniamo alle sue letture. Il suo primo romanzo fu «Code Lupin», un omaggio al personaggio di Arsène Lupin, creato da Leblanc, in cui si analizzavano i misteri della Normandia come ha fatto da Dan Brown con il «Codice da Vinci» per Roma. Un gioco di rimandi a scrittori che ha amato?

Si, soprattutto a Maurice Leblanc che considero un vero genio e che da ragazzo era un po’ il mio modello. Nato anche lui in Normandia, all’inizio ha fatto molta fatica ad essere apprezzato come scrittore, proprio come è accaduto a me. Così ho messo insieme le mie passioni letterarie di adolescente e ho riletto le avventure di Lupin, nelle quali all’inizio del Novecento Leblanc aveva sparso segnali in qualche modo «cifrati» da interpretare, con lo stile introdotto con il «fenomeno» Dan Brown. Ho tirato fuori le mie carte di geografo, misurato distanze e anologie tra chiese e monumenti storici fino a tracciare la linea di un’inchiesta che attraversava la campagna normanna e la città di Rouen.

Da ciò che dice, è chiaro che lei non teme affatto di essere considerato come uno scrittore di «genere», un protagonista della letteratura popolare di questi anni…

Le mie ricerche all’università assorbono tutta la componente «scientifica» del mio lavoro, ma penso che scrivere romanzi sia tutta un’altra cosa. In Francia c’è una lunga tradizione di letteratura popolare. Penso a Zola, Moupassant, Daudet, Pagnol o a Leblanc, di cui abbiamo già parlato. Oggi popolare è diventato sinonimo di commerciale, ma il punto non sono né il genere letterario né il canone narrativo cui si ricorre, ma la capacità di raccontare storie in cui le persone sono in grado di riconoscersi, magari scoprendo per questa via qualcosa di sé che ancora non conoscevano.

 

Il ricercatore che ha scoperto il giallo

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Già studioso di geografia elettorale all’Università di Rouen, e responsabile di un progetto di ricerca in geopolitica del Cnrs, Michel Bussi, 52 anni, è uno degli autori di noir più letti di Francia. Dopo le difficoltà iniziali, molti rifiuti e una popolarità iniziale circoscritta alla Normandia, dove è nato e dove tutt’ora vive in un comune nella periferia popolare di Rouen – location dei suoi primi romanzi -, ha avuto la consacrazione pubblica sei anni fa con il romanzo «Ninfee nere», ambientato nel villaggio normanno di Giverny, dove ha vissuto e dipinto Claude Monet, pubblicato nel nostro paese da e/o, che ha edito anche «Tempo assassino», che si svolge in Corsica, e, di recente, «Non lasciare la mia mano» (pp. 368, euro 16) che ha come sfondo l’isola della Réunion. Il successo di Bussi si è costruito pian piano, attraverso la conquista di tutti i maggiori premi locali dedicati al polar, i riconoscimenti della «Maisons de la Presse« che si basa su migliaia di punti vendita in tutto il paese e quelli promossi dalla rete delle biblioteche comunali dell’intero Esagono. Un’affermazione che ne fa in assoluto uno degli autori francesi più popolari del momento.

 

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