Un cartello, un checkpoint deserto e all’orizzonte colonne di fumo. Siamo al confine tra Ucraina e Russia, a tre chilometri una volta c’era la frontiera, ora si intravedono i pennacchi bianchi di colpi appena esplosi al suolo. «Ma come mai al checkpoint non c’è nessuno?», chiediamo al poliziotto che ci accompagna. «Perché ora il confine non è più qui, i ‘partizan’ russi l’hanno spostato più a est», risponde ridendo.

L’agente si riferisce all’Rdk e alla Legione Svoboda rossii, quasi tutti qui li chiamano partizan, dai funzionari ai soldati, ma oltre ad ammettere che esistono nessuno dice nient’altro. È evidente che dall’alto è arrivato un ordine che vieta agli ucraini di parlare delle azioni oltre-confine.

«È la loro lotta, hanno deciso così», spiega Tamaz Gambarashvili, il sindaco di Vovchansk, intervistato in una bella mattinata di sole in cui i colpi dell’artiglieria fanno da accompagnamento alle sue parole pronunciate con un tono e una potenza da baritono. «Noi ci occupiamo della popolazione ucraina e dell’amministrazione nel nostro territorio, del resto no».

MA NON HANNO PAURA che le truppe russe per reazione contro i battaglioni di russi filo-ucraini muovano di nuovo contro il loro paese? «Vovchansk è stata occupata quasi subito dopo l’invasione, c’era l’idea che ‘tanto nel Kharkiv sono tutti filorussi’, sono stati mesi durissimi… ma poi l’11 settembre scorso è stata liberata e ora è stabilmente sotto il controllo delle nostre truppe».

E, a proposito dei cosiddetti filo-russi, che evidentemente dovevano esserci (e in misura minore ci saranno ancora), «si sono trasferiti in territorio russo quando l’esercito di Mosca si è ritirato insieme alla precedente amministrazione cittadina».

È una storia comune in Ucraina, ascoltata in diverse città occupate e poi riconquistate. Piuttosto che affrontare tribunali e portare il marchio di «collaborazionisti», molte figure dell’amministrazione occupante si danno alla fuga quando le truppe di Kiev sono alle porte.

C’è una calma strana nelle strade, il confine tra Ucraina e Russia in questa stagione è una macchia verde a perdita d’occhio. Pini alti e magri che costeggiano entrambi i lati della strada, nessun segnale internet o telefonico e ogni tanto il boato di un colpo di obice che fa vibrare la foresta. Anche in paese i colpi sono tutti in uscita, almeno oggi. «Speriamo che continui così», dice toccando rumorosamente il legno della scrivania il primario dell’ospedale di Vovchansk, Tyshchenko Kostyantyn.

UN UOMO con due braccia da taglialegna, alto due metri, calvo e pieno di tic che mentre ci parla firma in bella grafia con una stilografica che tiene in mano come fosse uno stecchino. Gli chiediamo se passano molti soldati dal suo ospedale, risponde che sono informazioni riservate. «Ma dopo le azioni a Belgorod probabilmente i feriti avranno bisogno di riparare da qualche parte e questa clinica…».

«Qual è lo scopo di questa domanda? – chiede perentorio agitando i piccoli occhi neri – Questo è un ospedale, è stato costruito 150 anni fa e da qui sono passati tutti: dai soldati zaristi ai sovietici, persino i nazisti…tutti qui sono stati curati e hanno rispettato questo luogo, tutti tranne i nostri ‘fratelli’ (interrompe la firma arabescata che stava componendo e ci guarda fisso); venite a vedere cosa hanno fatto a questo ospedale i nostri ‘fratelli’ russi. Siamo la stessa gente, no?».

C’È CHI DICE che quell’uomo imponente abbia issato la prima bandiera ucraina, proprio sul tetto dell’ospedale, mentre i russi abbandonavano la città. Dirige il policlinico con il piglio autoritario di un generale, del quale indossa anche i vestiti dello stesso colore sotto il giubbotto anti-proiettile. Si alza e porge la manona per indicare che l’intervista è finita, poi chiama a gran voce una donna e ci fa accompagnare a vedere tutti i danni causati dai bombardamenti. «Questo è successo il 18 aprile, questo l’altro ieri… – elenca la signora Anna, come la chiamano tutti – Sono stanca di cambiare le finestre una volta a settimana».

Al confine est della città, vicino a un cartello con scritto «Belgorod 56 km», c’è la frontiera. Grazie alla posizione rialzata dall’altro lato si vedono i centri abitati e chissà dove alcune colonne di fumo. Lì in basso, secondo diversi canali Telegram (soprattutto russi) i mezzi corazzati della Legione Libera Russa sono ancora a Novaya Tavolzhanka e l’esercito russo non riesce a neutralizzarli o ricacciarli indietro.

«Sbrigatevi! Drone», urla il poliziotto mentre un ronzio come di insetto gigante riempie l’aria. A tutta velocità ci allontaniamo da quel luogo e riprendiamo la via delle foreste mentre un fumo biancastro e pungente si infila nel naso e appanna la vista. Tra gli alberi succedono molte cose, da un lato e dall’altro del confine. Ma come dice il video diffuso dal comando militare supremo ucraino: «Shhhh».