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La frontiera dei passi perduti

La frontiera dei passi perduti – Lapresse

Migranti Tra Ventimiglia e Mentone, in una strana terra di nessuno, si temono i controlli ma si resiste sugli scogli, aspettando risposte

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 16 giugno 2015
Paolo OdelloVENTIMIGLIA

Frontiera di Ponte San Ludovico, oltre le due linee gialle c’è il mondo. Francia o Italia, tutto dipende soltanto da che parte volgi lo sguardo. In mezzo c’è quella strana terra di nessuno che garantisce intangibilità a chiunque si arrocchi lì e visibilità mediatica alla cinquantina di migranti che, riportati loro malgrado in Italia dai gendarmi francesi, da sabato sera si rifiutano di abbandonare lo scoglio e tornare a Ventimiglia. Non hanno intenzione di tornare a fidarsi delle promesse italiane, e neppure di quelle europee.

Nella notte di sabato le coperte termiche erano un riflesso argentato illuminato dalla luna, sotto lo scroscio di pioggia domenicale sono difficili da identificare. Eppure sono là, si sa che ci sono perché non si sono mossi, una protesta disperata per non lasciare nulla di intentato e vanificare ogni speranza. Ma non si vedono neppure gli agenti della Compagnie républicaine de sècurité (Crs), i reparti antisommossa che da giorni affiancano la Gerdarmerie nel controllo di treni, valichi autostradali, frontiere. La loro presenza è molto più reale: sul piazzale ci sono i loro blindati con le grate a proteggere il parabrezza. Guardano verso l’Italia, l’indesiderato se arriva esce dalla galleria di Latte.

Da Mentone? Impossibile. In pochi minuti, al giornalista viene spiegato che, come cittadino europeo, può andare dove gli pare, ma se vuole fare il suo lavoro di cronista deve accreditarsi presso la Prefettura. Chi scrive, in territorio francese ci sè arrivato ore prima, col treno delle 6 e 52 in partenza da Ventimiglia e diretto a Nice Ville. Ha seguito il tentativo di una ventina di migranti: decisi a non lasciare nulla di intentato hanno preso posto sul treno annunciato dall’altoparlante della stazione ferroviaria di Ventimiglia. La prossima «emergenza profughi» sta crescendo nell’atrio della stazione di confine dell’estremo Ponente ligure, sui marciapiedi della scalinata, nelle aiuole di piazza Cesare Battisti.

Cresce e si ha l’impressione che nessuno abbia intenzione di non farla diventare tale. A ogni nuovo arrivo di un qualche convoglio proveniente da Milano o Roma altri migranti si sommano a quelli già presenti. Numeri ancora gestibili per una cittadina come Ventimiglia, fra i 350 e 400. Una tappa fra le tante, una sosta non voluta, obbligata. La meta del viaggio è altra: Inghilterra, Svezia, Olanda, Germania, il Nord Europa. Lo dichiarano con sicurezza. Come Arman, afgano, che vuole raggiungere un non meglio specificato parente in «England», e tre ragazze somale, una ha soltanto 15 anni e vuole raggiungere la sorella ad Amsterdam e viaggia da almeno un mese insieme alle altre due che la seguono in silenzio. E Ahmed che scappa dal Sudan e di preciso sa soltanto che vuole dimenticare il Darfour.

Quello che colpisce è la giovane età di chi ti trovi davanti, la normalità della disperazione di famiglie in fuga verso una qualche speranza di futuro, qualcosa di più normale di una quotidianità di bombe e paura. La sola che può convincere una madre a rischiare la vita di un figlio che ancora allatta al seno. È arrivata con l’ultimo treno proveniente da Milano, alle 6 di domenica mattina il bambino ha soltanto accennato un leggero lamento e lei ha risposto con velocità alla sua richiesta. Il bimbo succhia contento a occhi chiusi, istantanea rubata alla normalità di una giornata nata all’insegna dell’agitazione. Nella notte qualche improvvisato “passeur” si è fatto vivo, gli arresti degli ultimi giorni e l’ostinazione francese ha fatto lievitare i prezzi, dai 50 euro di qualche giorno fa si è già arrivati ai 70 di oggi, 90 se di giorno perché il rischio diventa maggiore. Troppo cari, e la pesca è andata a vuoto.

Un ragazzo eritreo, della sua storia racconta tutto ma tace con ostinazione il nome: è renitente alla leva e teme ritorsioni sui pochi familiari rimasti ad Amara, ha un biglietto per Nizza. Lo tiene in mano anche una volta seduto in treno. A Menton Garavan la Gendarmerie passa in rassegna scompartimenti e vagoni, stranamente a campione, hanno pescato “sei clandestini” e tanto gli basta, il nostro non viene considerato. Le porte si chiudono, si riparte, il ragazzo eritreo si fa quattro volte il segno della croce, questa volta è andata, fino a Nice Ville può viaggiare rilassato. Svicola furtivo fuori dalla stazione di Nizza, la città ancora dorme indifferente. I gendarmi non lo hanno visto, non ancora. Non c’è fretta, tanto se vuole arrivare a Parigi come ha detto in stazione deve tornare.

Il governo francese ha stretto le maglie dei controlli, ma è solo una scelta politica, tutta politica pare. Se ci si allontana dalle stazione, a Nizza come a Mentone, c’è il deserto. È domenica, e piove. I Crs escono all’«Ac146». Ci allontaniamo dalla frontiera. Hanno una consegna e la rispettano. Tornando alla stazione, il pensiero va al clima trovato Ventimiglia. La dichiarata ostilità del 2011 ha lasciato il posto a una solidarietà fatta di empatia e immedesimazione. «Potrebbero essere i miei figli o miei nipoti» dice uno dei tanti volontari senza divisa intento a distribuire piatti di pasta cucinata dalla Croce Rossa.

Il comune ha fatto montare bagni chimici e docce. Enrico Ioculano, Pd, guida la nuova amministrazione comunale eletta in sostituzione di quella (centrodestra) sciolta dal ministro Cancellieri per sospette infiltrazioni mafiose. «Nonostante le oggettive difficoltà voglio che per quanto straordinario tutto rimanga entro un quadro rispettoso della dignità delle persone, per tutti che siano migranti o residenti non ha nessuna importanza. Il mio obiettivo è monitorare continuamente la situazione per mantenerla sempre entro un contesto il più ordinato possibile», dichiara Ioculano. E intanto l’occhio corre alle finestre buie degli uffici dell’ex dogana. Aperto da domenica sera, ospita quanti prima stavano fuori. Ma non risolve l’ostinato ripetersi di una quotidianità spesa in attesa di risposte che non arrivano.

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