Mediare, stare nel mezzo. È questa la funzione dei mediatori interculturali, essere médius: «collegare i mondi» e avere uno «status intermedio». È un aspetto cruciale per la vita di un Paese nei suoi diversi ambiti di interazione. Le barriere linguistiche e le scarse competenze interculturali sono di ostacolo all’interazione, con effetti più o meno significativi. In ambito sanitario, ad esempio, la comunicazione è un elemento critico della sicurezza del paziente e della qualità dell’assistenza: pazienti che non parlano la lingua del Paese ospitante sono soggetti a ricoveri più lunghi, disparità sanitarie e trattamenti inappropriati (…).

IN ITALIA secondo il sociologo Ali Baba Faye, manca una visione aperta e complessiva sulla mediazione culturale: «tutto questo rende meno efficace la moltitudine di pratiche di mediazione finanziate dagli enti locali, con innumerevoli progetti copia-incolla. Ci sono fondi dedicati, si è creata una professione, si sono diffuse a macchia d’olio iniziative di formazione per mediatori culturali, ma oggi non hanno uno status giuridico e vengono assunti in progetti senza una visione culturale e politica trasformativa e arricchente il Paese.

È MANCATA LA CAPACITÀ di valorizzare in termini sistemici le sperimentazioni efficaci in cui le comunità straniere hanno potuto percepirsi importanti per dare un futuro diverso a città e paesi. Anche dove alcuni esperimenti sono di valore per i territori, il Paese non è stato in grado di apprendere, dunque di trasformare il suo approccio alla convivenza e al modello di sviluppo».
Secondo bell hooks, la sfida è creare comunità inclusive «favorire in tutti i contesti di apprendimento uno sconfinamento che consiste in un’apertura radicale, nella quale la volontà di esplorare prospettive sociali e culturali diverse crea un’intimità che non annulla la differenza. Gli esseri umani cambiano idea quando vivono la vicinanza e si confrontano. Così nell’ascoltare la diversità, nel discutere e nel dissentire si producono processi di apprendimento con gli altri in un dialogo che deve rimanere acceso e aperto».

È QUESTA PER BELL HOOKS l’esperienza che predispone alla vita in comune dove ogni essere umano, di fronte a un suo simile, si riconosca come pari.
Ma forse, come scrive Adel Jabbar per fare questo occorre andare oltre tra la figura del migrante e soffermarsi sullo straniero. Infatti, se ci si limita alla figura del migrante, si riproduce semplicemente il meccanismo del modello dominante che porta a un’integrazione subalterna. «Se invece si intende promuovere un principio di uguaglianza emancipante, non si può prescindere dalla figura dello straniero, portatore di ottiche culturali e anche spirituali, quindi dal proiettarsi in una dimensione di ricerca di valori e di cambiamento. Il migrante è alla ricerca di certezza, lo straniero è un simbolo di libertà (da intendersi ovviamente come condizione morale e spirituale e non nel senso del fare ciò che si vuole).

LA PRATICA INTERCULTURALE deve saper comprendere che queste due figure possono e devono poter coesistere nella stessa persona, nell’immigrato, ma non solo, in ogni individuo che vive dentro una collettività. La vera sfida, al di là delle differenze religiose o culturali, è secondo Faye «lavorare insieme per fare società. Oggi non si può partire se non dal prendere atto che la società non è più omogenea. Il multiculturalismo è un fatto reale e nel fare società si deve tener conto dei tratti di diversità esistenti.
(…) C’è da inventare strategie credibili, di lungo respiro, costruendo appunto sulle sperimentazioni che non mancano» Quando si parla di governance della diversità ci sono da mettere in campo strategie, programmi, modalità di intervento ormai collaudati in grado di reinventare, passo dopo passo, la coesione sociale, le comunità territoriale, il fare società nei territori. Oggi il capitale sociale dei territori non è valorizzato a sufficienza. E del capitale sociale fanno parte i saperi e le capacità non solo degli indigeni, ma anche degli stranieri che possono offrire un di più in termini di innovazione culturale ed economica.

Sono saperi che vanno strutturati, elevati oltre gli individui che li hanno messi in atto, per diventare pratiche istituzionali condivisi, saperi comuni. Come ci ricorda Pavese, «bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo». La seconda volta è cruciale perché coincide con l’espressione. La prima era soltanto esperienza. L’espressione senza esperienza è sterile. L’esperienza senza espressione è vuota, muta, cieca, sorda.