Sono passati poco più di cinquanta anni dall’aprile del 1968, quando Enoch Powell tenne un discorso passato alla storia come «the river of blood speech». Powell era una delle figure di spicco del partito conservatore britannico. Parlamentare di lungo corso, in quel momento membro del governo ombra, poteva aspirare a nuovi incarichi ministeriali se i Tories avessero vinto le elezioni. Le reazioni al discorso, tenuto durante una riunione di partito a Birmingham, in cui, citando Virgilio (era un brillante classicista), Powell preconizzava per il Regno unito un futuro in cui le politiche di integrazione tra bianchi e neri avrebbero prodotto un bagno di sangue, ne stroncarono la carriera. Appena il contenuto del discorso fu reso noto, diversi membri del governo ombra minacciarono le dimissioni se Ted Heath, il leader del partito, non avesse rimosso Powell dal suo incarico.

Nei decenni trascorsi dalla fine degli anni Sessanta la società britannica è diventata multiculturale e multietnica. Persino le porte dei luoghi simbolo del “vecchio regime” (dalla House of Lords alla Corte), si sono aperte progressivamente a persone non di pelle bianca, non sempre nate nel Regno unito, che nelle isole britanniche hanno trovato occasioni di affermazione professionale o di successo personale. La presenza costante nella sfera pubblica di figure del mondo della cultura e dello spettacolo, di celebrità di vario tipo, e anche (per qualche tempo) quella della moglie di uno dei figli dell’attuale monarca, hanno alimentato la narrazione di un paese che si era lasciato alle spalle gli aspetti peggiori dell’eredità imperiale.

Eppure, da qualche tempo, questa immagine rassicurante ha cominciato a incrinarsi. Probabilmente i primi segnali sono stati visibili sui social, dove forme quotidiane di razzismo sono state “normalizzate” da parte utenti popolari, e in qualche misura assecondate da politici alla ricerca di facile consenso. Questi atteggiamenti sono partiti dalla destra estrema dello spettro politico, ma si sono diffusi anche a quella tradizionale, fino a mettere radice negli ultimi anni tra i Tories. Rafforzati da una stampa dominata da editori che coltivano razzismo e xenofobia per lucro.

Alla luce di questi fatti, colpisce ricordare la reazione dei Tories alla presa di posizione di Powell nel 1968 (che secondo alcuni sondaggi non era sgradita a una parte degli elettori del partito). Ciò che era allora inaccettabile moralmente e politicamente, anche se poteva attirare voti, venne respinto in maniera convinta dalla leadership del partito della destra (da alcuni in modo più deciso, da altri, per esempio Margaret Thatcher in modo blando).

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Oggi la situazione è diversa. La leadership politica dei Tories non guida, ma segue ciò che si ritiene possa procurare consenso (anche se le indagini di alcuni scienziati sociali sembrano indicare il contrario) e tanto peggio per i principi di decenza della destra conservatrice di vecchio stampo che rigettava, almeno nel discorso pubblico, il razzismo.

A cambiare orientamento non sono stati solo settori influenti della classe dirigente britannica (nella stampa, nel mondo dello spettacolo e nell’accademia) che erano da sempre vicini alla destra conservatrice, ma questi atteggiamenti hanno finito per influenzare anche la sinistra, come si è visto in campagna elettorale, quando Starmer ha indicato negli opposti estremismi (di destra e di sinistra) gli avversari del suo Labour “cambiato”, mostrando scarsa sensibilità alle denunce di chi segnalava una crescita preoccupante di atteggiamenti razzisti e islamofobici in certi settori della società britannica.

Oggi Starmer, diventato nel frattempo primo ministro, corregge in parte il tiro sottolineando che le violenze degli ultimi giorni si devono a elementi di «estrema destra», contro i quali il suo governo minaccia misure draconiane, ma è chiaro che non sarà attraverso misure law & order che si potrà arginare la violenza razzista.

La radice del razzismo che esplode con violenza nelle strade di alcune città del Regno unito va cercata in un passato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo. Non è un caso che tra i primi segnali della tendenza che è al centro delle cronache ci sono state le reazioni ostili, che talvolta hanno condotto anche a vere e proprie minacce, come nel caso dello storico Sathnam Sanghera, nei confronti di studiosi o artisti che affrontavano nei propri lavori temi scomodi del passato coloniale britannico. La favola pietosa di un paese felicemente multiculturale e multicolore, dal «corner shop» al palazzo di Windsor, cercava di occultare questo passato. Oggi il velo è caduto.