Janyie accende il motore, la jeep romba e si parte. Ha comprato la macchina in Polonia, se la gode per qualche giorno prima di consegnarla a qualcuno che la porterà in Donbass. Dall’inizio della guerra è in una rete di volontari che inviano continuamente jeep al fronte. «Non durano più di una settimana» racconta.

Lasciamo Kiev e passiamo per le barricate più vicine alla capitale. Poi i segni dell’artiglieria, vicinissimi all’entrata della città. Nei boschi alcuni alberi sono stati tranciati dai colpi dei mortai, altri sono segnati dai fori delle mitragliatrici. «Lì, tra le piante, ci sono ancora mine nascoste che siccome sono state interrate dai vicini e non dai militari non si sa dove siano».

Passiamo per Moshchun, ultima roccaforte prima dell’aeroporto. Qui non sono rimaste in piedi molte case e le poche che hanno retto comunque si ritrovano con i vetri rotti, che man mano, con gli aiuti della cooperazione umanitaria, si stanno sostituendo. A Moshchun, in ogni strada, dalla principale a quelle secondarie, non c’è niente che non porti tracce di proiettili, chilometri e chilometri di fori di proiettile.

Poi si passa per Borodyanka, Janyie fa un grido di stupore nel vedere i palazzi distrutti, li ha (e li abbiamo) già visti ovunque, e ora ci siamo di fronte. Non sono più delle anonime macerie, sono il monumento a un’atroce, amara, vittoria ucraina. A dare ulteriore forza a quel che resta degli edifici un graffiti di Banksy, ora coperto da un vetro.

Imbocchiamo una strada di campagna, arriviamo a un piccolo villaggio, dove ci aspetta Tanya. Sta badando a un puledro di un mese nel ranch in cui lavora. Ci raccomanda di non avvicinarci, la madre è gelosa. «I russi hanno occupato questo terreno. Durante i bombardamenti un asino è morto, forse di paura. I cani l’hanno mangiato e così sono sopravvissuti».

Esordisce così Tanya, facendoci capire che anche di queste cose è fatta la guerra.

«Io abito da un’altra parte – prosegue – e la mia fattoria non è questa, qui c’erano i russi, che hanno lasciato scappare i cavalli, i quali sono sopravvissuti e hanno anche fatto dei puledri. I conigli non hanno avuto miglior sorte, i russi se li sono mangiati nonostante io abbia cercato di impedirglielo».

Tanya è una donna sulla quarantina, che ha lasciato la capitale tempo fa per vivere con gli animali, e ora per badare a loro ha deciso di non seguire la colonna di civili che ha lasciato il villaggio durante l’occupazione.

La prima volta che ha visto i militari russi stava portando a caricare i telefoni dei suoi vicini, avendo lì un generatore. «Un militare con una grande mitragliatrice – racconta – è saltato fuori da un cespuglio gridando: “Cosa fai qui? Non vedi che sono un soldato russo?”. Io ho fatto finta di non sapere cosa stesse succedendo, ma lui mi ha portata in un camion e mi ha perquisita. Ho avuto paura. Immagina come mi sono sentita quando ha trovato un sacco di telefoni nel mio zaino. Ha curiosato negli smartphone ma per fortuna non ha visto il mio account Telegram, in cui descrivevo quello che succedeva a un bot dell’esercito ucraino. Non sarei qui se avesse cercato meglio».

Tanya racconta come in quel momento capì che quel militare, di alto rango, ormai si fidava di lei e che quindi poteva proteggerla, a differenza degli altri lui non le sembrava aggressivo. “Tovarish commander” lo chiamava, e con il suo russo perfetto gli chiedeva se poteva andare a dar da mangiare agli animali. Quando le accordava il permesso, non sempre, lo comunicava via radio a quelli che stavano al fronte. Lei camminava cercando di mettere i passi dove li aveva messi il giorno prima per non inciampare su una delle 14 mine che erano disposte vicino al suo ranch. Raggiungeva le postazioni da dove i russi sparavano agli ucraini, nascosti nelle trincee. Lì doveva presentarsi a un militare che l’accompagnava mentre lei badava alle bestie. Intanto i proiettili fendevano l’aria e le lamiere, ed esplodevano i colpi di cannone non lontano da loro.

«Quando mi sono rassegnata al fatto che avrebbero potuto stuprarmi, uccidere me e i miei animali, in quel momento non ho più avuto paura. Ho imparato anzi a godere delle piccole gioie, della solidarietà che si era instaurata tra i pochi che eravamo rimasti nel villaggio. Alla fine di tutto avevo perduto solo un asino e qualche coniglio, io ero tutta intera e anche i miei animali. Allora sono stata pervasa da uno strano senso di gioia, di gratitudine».