«Voglio fare il criminologo!» afferma con la sicurezza di chi non ne ha mai incontrato uno, il ragazzo intervistato in primo piano. Un altro immagina una grande riforma fiscale che possa restituire se non il futuro almeno qualche modesta sicurezza previdenziale. Al classico Manzoni di Milano i figli della borghesia intellettuale si arrampicano sulla necessità di una maggiore e migliore socialità, rivendicando diritti e dimenticando i doveri connessi ai privilegi di cui godono. Uno se la prende con la classe politica ma la sua voce suona come quella di un attore teatrale che calzi le cuffie dell’eterodirezione: artificiosa, abitata da parole altrui, disincarnata dal corpo incompiuto che le pronuncia. Gli studenti della Normale di Pisa faticano a nascondere il compiacimento di appartenere a un’elite intellettuale, come se il feroce esame d’ammissione fosse la forma moderna degli antichi riti di iniziazione che davano ruolo e sicurezza di sé. Quando qualcuno usa l’espressione salto di classe si sente in dovere di precisare quanto sia brutto da dire, come se la mobilità sociale fosse diventata un tabù nell’Italia immobile di oggi. E persino i sogni dei giovani pugili cagliaritani si sentano condizionati dai vincoli nazionali: solo all’estero si può sfondare, lamentano.

FANNO IMPRESSIONE gli adolescenti che Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher hanno scelto di intervistare nel loro viaggio sulla scorta dei libri di Stefano Laffi, nel documentario Futura presentato alla Quinzaine. La loro passività sembra ripercorrere quella che i commentatori gli attribuiscono e l’angustia paratelevisiva dei loro sogni non può che preoccupare. Il passaggio veloce del film nell’Italia delle cento specificità non si ferma però sulla soglia dell’inattività lamentosa e non dimentica di campionare esempi anche molto distanti. In Veneto i ragazzi ammettono di mettere i soldi da fare e il potere da esercitare al centro delle ambizioni, mentre tra chi studia da estetista c’è chi spera di trovare un lavoro che la liberi dai lacci della famiglia e chi è già pronta a consegnarsi mani e piedi a un marito che raccolga la potestà paterna. Qui le questioni sono più serie, il confronto con la vita ha qualche accenno drammatico e anche i toni sono più diretti. Il film mostra qualcosa che non è ancora stato raccontato del tutto, ma è impossibile non pensare quanto questo dipenda da chi li ha scelti e come li abbia interpellati. Lo strumento dell’intervista raccolta al volo, ripresa dai lavori che i citati Comencini e Soldati realizzarono nel passaggio tra gli anni ’50 e i ’60, spesso sembra suggerire agli interlocutori dei modelli predigeriti e fatica quindi a rivelare il reale. Talvolta funziona per differenza invece, dove a contare non sono le dichiarazioni ma quanto rimane inespresso. Chi, a sedici anni si trova sospeso tra due mondi, nell’aspirazione a diventare carabiniere esprime probabilmente anche il desiderio di rimanere lontano dalla concreta opzione malavitosa e il non detto che siamo autorizzati a immaginare offre spessore e verità alla testimonianza.

AD ATTRAVERSARE tutti i gruppi, i privilegiati e i malestanti, è la difficoltà a dire noi. Non si sognano di pensarsi soggetto collettivo i genovesi redarguiti da Alice Rohrwacher per la loro ignoranza dei fatti del G8 del 2001, ma imprevedibilmente lo fanno i ragazzi marchigiani che passano il loro tempo migliore a lavorare su motore e assetti degli Ape che guidano spericolatamente per le strade e i parcheggi. La loro passione per i motori, smodata e condivisa, li fornisce di un singolare bene di identità, come se ogni cavallo di potenza in più estratto dal motore sia una gioia che ha senso solo se confrontata con gli altri, e la velocità di mezzi ampiamente fuori legge fornisce il sollievo di rischiare lievemente la vita quando ancora non si sa cosa sia.