Cultura

La democrazia del caracol attraverso i murales zapatisti

La democrazia del caracol attraverso i murales zapatisti

Scaffale Intorno al libro di Roberto Bugliani e Aldo Zanchetta "Murales zapatisti. Progetto di un mondo nuovo", pubblicato da Museodei by Hermatena. Immagini colorate fissate su «fragili pareti» che raccontano del progetto nato da un sogno che, evidenziano gli autori, riguarda anche noi e «oggi ancor più di ieri»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 14 ottobre 2022

Era la mattina del primo gennaio 1994 e grande deve essere stato lo stupore, e il fastidio, dei turisti che affollavano San Cristóbal de Las Casas nel trovare al loro risveglio una città occupata da indigeni e indigene con il volto coperto da passamontagna neri o da fazzoletti colorati. Durante la notte, scesi dalle montagne armi in pugno, alcune migliaia di indigeni lanciarono al Messico e al mondo il loro «Ya basta!» occupando Ocosingo, Altamirano, Las Margaritas e, appunto, San Cristóbal de Las Casas.

Ed è proprio in questa città che, di fronte alle proteste di un turista straniero che voleva andarsene subito via, uno degli occupanti aveva pronunciato delle parole che avrebbero fatto il giro del mondo: «Scusate il disturbo. Questa è una rivoluzione». Era il subcomandante Marcos e la sua folgorante risposta campeggia in uno dei murales dipinti nelle comunità indigene zapatiste del Chiapas, a cui è dedicato il libro di Roberto Bugliani e Aldo Zanchetta Murales zapatisti. Progetto di un mondo nuovo (Museodei by Hermatena, pp. 176, euro 20). Parlano, quelle immagini colorate fissate su «fragili pareti», del progetto nato da un sogno che, evidenziano gli autori, riguarda anche noi e «oggi ancor più di ieri», nel momento in cui l’avventura umana su questo pianeta, alle prese con le sfide più difficili della sua storia, ha urgente bisogno di percorrere strade nuove.

PROPRIO LA LETTURA di quei murales – benché mediata da uno sguardo proveniente da un altro mondo culturale, «quello dell’io e non quello del noi proprio del mondo amerindio» – offre una chiave importante per decifrare tale progetto, con le sue «radici antiche» e le sue «parole nuove», in una commistione fra tradizione e innovazione che è uno dei tratti più distintivi dell’esperienza zapatista.

E lo è fin da quell’incontro iniziale, nel 1983, tra un pugno di giovani rivoluzionari cittadini e un popolo di contadini indigeni che avrebbe dato vita a quella che l’intellettuale messicano Carlos Fuentes ha definito come la prima insurrezione «postmoderna»: una ribellione destinata a riaprire «il ciclo delle lotte anti-sistemiche nel mondo» che sembrava essersi chiuso con la dissoluzione dell’Urss, ma su basi nuove, anche lontane dal pensiero della sinistra classica, a cominciare dal rifiuto della costruzione e dell’esercizio del potere dall’alto. «Aquí manda el pueblo y el gobierno obedece», annunciano i cartelli posti all’ingresso dei territori controllati dalle comunità zapatiste.

Si tratta, spiega Zanchetta, di «un’utopia concreta in costruzione» legata a un pensiero fluido e mutevole, al passo con le diverse fasi di lotta, riflesso a perfezione, evidenzia Bugliani, dalla «natura perennemente cangiante del mural zapatista». Benché, è ovvio, gli obiettivi di libertà, giustizia e democrazia non siano cambiati nel tempo, attraversando il tradimento degli accordi di pace da parte dello Stato e il lungo silenzio che ne è seguito, fino al successivo avvio di un’originale esperienza di autogoverno, «dal basso e a sinistra», in mezzo agli atti ostili dei gruppi paramilitari fomentati dalle politiche del governo, anche di quello attuale.

È L’ESPERIENZA DI DEMOCRAZIA radicale (decentrata e fondata sul primato del valore d’uso rispetto al valore di scambio) legata all’istituzione di quei centri organizzativi noti come Caracoles, il cui nome rimanda a un’immagine, quella del caracol, la lumaca, che non a caso appare in diversi murales, con il significato di «un percorso che dalla periferia va verso il centro e viceversa», ma anche di «un avanzare lento ma continuo, senza fughe in avanti» e di un «camminare collettivo al passo dei più lenti».

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