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La crisi alla Camera è il nuovo capitolo della guerra civile Usa

La crisi alla Camera è il nuovo capitolo della guerra civile UsaL’autore della sfiducia a McCarthy, il deputato della Florida Matt Gaetz – Bill Clark/Ap

Stati uniti Con la sfiducia dei trumpisti a McCarthy si prospetta uno Speaker ancora più estremista

Pubblicato circa un anno faEdizione del 5 ottobre 2023
Luca CeladaLOS ANGELES

L’affaire McCarthy sconvolge la politica americana, già in preda a convulsioni pre elettorali e sempre più polarizzata. La deposizione dello speaker della Camera espresso dal partito di maggioranza, i repubblicani, sprofonda nel caos il parlamento che senza majority leader è impossibilitato a proporre ordini del giorno o introdurre qualsivoglia decreto.
Chiave della crisi è stata la quasi parità fra i partiti nel Congresso e l’intransigenza della fazione di estrema destra Gop, la corrente Maga fedele a Trump. Sono stati questi ultimi parlamentari ad introdurre la sfiducia, nella mozione firmata dal deputato della Florida, Matt Gaetz, attivando una regola da poco introdotta che permette anche ad un singolo parlamentare di farsene promotore. Nella votazione che è seguita, otto ribelli Maga hanno votato per la rimozione di McCarthy e così anche i democratici, che hanno rifiutato di soccorrere l’avversario (sarebbero bastati 5 voti favorevoli).

ALLA FINE McCarthy è stato eliminato per 216-210 in una ritorsione per quella che i Maga considerano una eccessiva disponibilità a trattare col nemico invece di tenere la linea del sabotaggio ad oltranza dell’amministrazione Biden. Causa specifica della fronda è stata la proroga sul finanziamento dei dicasteri cui McCarthy aveva acconsentito in extremis la scorsa settimana, per sventare lo shutdown che avrebbe paralizzato le operazioni di governo.

McCarthy è un arciconservatore, contro l’aborto, anti immigrati e anti “woke”, non abbastanza però per la fazione oltranzista. Il suo pur minimo compromesso raggiunto con Biden, è stato considerato un imperdonabile «tradimento» dai falchi che reclamavano invece drastici tagli alla spesa pubblica, e l’utilizzo del ricatto sul bilancio per ottenerle.
Alla Camera è andato così in scena l’ultimo capitolo della guerra civile che imperversa nel partito in cui negli ultimi sei anni Donald Trump ha imposto la sua linea populista sulla leadership tradizionale. Una rivoluzione culturale in cui la minaccia di un elettorato fanatizzato ha tenuto in riga le diverse correnti ma anche occultato l’entità delle tensioni interne. Nel panorama granulare del Congresso le divisioni sono invece ora diventate palesi. E la lobby intransigente ha fatto piombare nel caos la Camera che, per la prima volta nella storia nazionale si trova senza guida né successori apparenti, emblema di un paese sempre meno incline a compromessi.

LA FORZA polarizzante del trumpismo minaccia dunque la coesione delle istituzioni, compreso lo stesso bipartitismo. Negli Stati uniti i partiti sono sempre stati contenitori di correnti molteplici e anche fortemente divergenti ma mediate dalla leadership. Un modello che oggi, in uno dei due partiti non tiene più. I ribelli hanno infatti agito come un qualunque piccolo partito che sfiducia una coalizione in un parlamento europeo – o una formazione oltranzista che nella Knesset fa precipitare una crisi di governo sottraendo i propri voti. Per gli integralisti della neo destra populista, alimentati da un fanatismo esasperato nella base, viene meno l’incentivo alla mediazione.

CON UN SOSTANZIALE potere di veto in mano ad oltranzisti che rappresentano il 4% del partito, è del tutto possibile che venga ora eletto un leader più conservatore ed ostruzionista di McCarthy. Fra i papabili iniziali vi sono Steve Scalise della Louisiana, complottista delle «elezioni rubate», anti Lgbtq e pro armi, che in passato è intervenuto ad un comizio dell’associazione suprematista per i «diritti euro-americani». Un altro candidato è Jim Jordan, negazionista climatico contrario alle misure anti disinformazione online e capo della commissione giustizia incaricata dell’impeachment di Biden. In ogni caso alternative che renderebbero più complicati ancora i compromessi con l’amministrazione Biden e prospettano la paralisi di governo. Anche perché su ogni nuova leadership graverebbe la medesima minaccia damoclea degli oltranzisti.

FRA LE SCADENZE più immediatamente a rischio, un nuovo shutdown, destinato a riproporsi il 17 novembre se non vi sarà un accordo più permanente sul bilancio. Senza capogruppo non è però attualmente possibile persino intavolare trattative su cui incomberebbe comunque il potere di veto dei Maga. La crisi incarna la volatilità del momento politico che apre un anno cruciale dalle molteplici possibilità di crisi costituzionali, sulla dirittura di elezioni che si prefigurano come un nuovo assalto frontale alla democrazia da parte del partito di Trump.

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