In occasione dell’edizione 2023 del Festival del cinema di Cannes, ripubblichiamo questo articolo del 1989 su Pedro Almodóvar, allora già conosciuto ma ancora agli inizi della carriera. L’articolo è stato pubblicato sul manifesto di domenica 19 febbraio 1989 a pagina 13.

Alla fine degli anni ’60, terminato il liceo, Pedro Almodóvar si lascia alle spalle «le pesti dell’alimentazione, le vene varicose, l’obesità e l’alito cattivo» del suo paesino nella Mancha e approda a Madrid. Per questo giovanissimo scatenato «fantasista» — a cui l’Instituto Espanol de Cultura dedica in questi giorni a Roma (Saletta Bnl, Via Salaria 113, chiedere inviti all’865985) una rassegna quasi completa in lingua originale (manca solo il primo film, Pepi, Lucy, Bom y otras chicas del montòn) — il primo impiego è alla Telefònica, la Sip spagnola, dove rimarrà dieci anni e che ritornerà nei suoi film, in cui telefoni di tutte le forme e colori si muovono come personaggi, ora
maltrattati, ora sedotti dalla voce sensuale di un amante, ora presenze che danno concretezza a comunicazioni bizzarre e sfuggenti.

Intanto, durante il «periodo dei telefoni», prendono forma d’abbozzo, in sperimentazioni Super8 molto private, fantasie di sesso trasgressivo e umori sarcastici, irriverenti. Il brioso ragazzo di provincia, nel cui immaginario non mancano le figurette rosa e le capigliature femminili anni ’50, che incorniciano con dolcezza e ironia i titoli di testa del suo ultimo film Donne sull’orlo di una crisi di nervi, è atteso da un’esplosione di gioventù, sesso e  creatività.

Nel ’75 la Spagna usciva dagli anni bui del franchismo, e nella capitale scoppiava la Movida, il modo di vita notturno, edonista e febbrile attraverso il quale giovani, intellettuali e «diversi» di tutte le risme si riconciliavano con passioni e voglia di vivere. Nelle lunghe notti madrilene, in cui si tirava a fare l’alba un bicchiere dietro l’altro, in uno dei tanti pianibar, discoteche o cineclub, spuntati come funghi dopo la sepoltura del Generalissimo, il festoso tam-tam riuniva energie creative, un fluido invisibile legava a progetti comuni nella moda, nel fumetto e fotoromanzo, nel cinema underground, nella pittura e grafica, nella musica, decine di «artisti di strada» e di ragazzi  borghesi esasperati dai compunti cerimoniali paterni, in cui si imbalsamavano le norme dell’antico regime. «C’era in tutti un’indipendenza feroce — ricorda oggi Almodóvar — ma anche un’invidia altrettanto feroce. Non c’era pittore, a Madrid, che spendesse parole gentili per un altro pittore. Il cinema era un caso a sé stante, perché a fare film ero solo io. Così, da questa posizione di isolamento potevo avere rapporti con tutti».

IL CLIMA ELETTRICO DI MADRID

Almodóvar gira nel 78 il suo primo lungometraggio in Super8, Folle, folle, folleme Tim (Fotti, fotti, fottimi Tim). Insieme collabora insaziabilmente, con racconti, articoli, testi per comics, fotoromanzi, a riviste underground come Star, El Vibora, Vibraciones. E recita e canta nel gruppo teatrale indipendente Los Goliardos. Frammenti di un periodo in cui le opere vanno consumate subito e poi gettate via, i posteri assomigliano agli odiati antenati, e la misura è il godimento.

Ma l’altra faccia del godimento è una rabbia schizzata, senza futuro, a cui la nuova democrazia spagnola non offre chances. «Se negli anni 77-82 Madrid ha conosciuto come mai prima che cosa fosse la libertà, è perché erano gli anni della Cdu, cioè perché non esisteva un governo», dice Almodóvar.

Dai paesi anglosassoni arrivano i ritmi e i riti compulsivi del rifiuto punk, che trovano terreno fertile nel clima elettrico di Madrid. Ma la gioia dell’espressione, un amabile disincanto, la passione addolciscono e parodizzano, o rendono briosa e mordace, la rigidità «calvinista» del punk. Nei suoi primi due film in 35 mm, Pepi, Lucy, Bom y otras chicas del montòn (Pepi, Lucy, Bom e altre ragazze del gruppo) e Laberinto de pasiones, rispettivamente
del 1979-80 e 1982, Almodóvar filtra le fitte rappresentazioni punk con una sensibilità pop, che rende addirittura soffice e scoppiettante la realtà crudele e disordinata della droga e dell’emarginazione urbana e giovanile.

«Una maniera di vivere il punk più vitale, più allegra, dove la droga, le piante di marijuana sono di plastica», secondo le parole del regista, che si rifa, in particolare in Laberinto, al «pop urbano» anni ’60, soave e sottile, di Richard Lester, «in cui tutto è molto banale, i ragazzi e le ragazze si innamorano, soffrono moltissimo, ma di una sofferenza che non ha molto a che vedere col dolore». Niente di più lontano, per esempio, dall’«amore freddo come la morte» di un punk-movie come Siri e Nancy di Alex Cox.

Già con Pepi si definisce il sistema-Almodóvar: una struttura filmica molto ben coordinata, in cui la realtà della rappresentazione viene prima, di quella rappresentata.

Tutto accade secondo ciò che ci si aspetta, ma questo livello è assorbito, nello spettatore, dal godimento immediato per la fluidità teatrale dell’intreccio. Il primo riferimento è Billy Wilder, le sue «commedie molto pazze, con molta azione e molti personaggi».

Almodóvar inventa, si può dire, la formula del cinema addizionale: può mancare appena mezz’ora alla fine e lui non si stanca di far entrare in campo nuovi volti, non come contorno esotico né
come colpo di scena, semplicemente altre storie che si aggiungono con naturalezza a una vicenda già molto articolata e che poi contribuiscono a sciogliere i nodi che il regista aveva sapientemente intrecciati.

I diritti del copione sono inalienabili. Ne consegue la necessità di un gioco di squadra affiatatissimo. Con una differenza: il «cinema di attori» di Almodóvar – attori «nati» con lui: Carmen Maura, Antonio Banderas, Eusebio Poncela ecc. – non è fondato sull’esibizionismo dell’autore, quanto piuttosto sulle necessità stringenti del film.

Protagonisti di Laberinto de pasiones sono due ninfomani, uomo e donna, che si amano, vorrebbero possedersi, ma senza successo. «È una tipica situazione da commedia, ma il problema è molto drammatico»: è come se Almodóvar si fosse prefisso di «svecchiare» la realtà cambiando il connotato dei suoi dolori. Ma non è burla: rimane, dopo i suoi film, un amaro in bocca, perché attraverso il gioco fantasmagorico delle parti alla Marivaux traspare il fondo cupo che quello cerca di esorcizzare.

C’è questa fusione veramente nuova tra un modo leggero e divertito e l’horror vacui. Ma a chi, come il Los Angeles Times, ha definito Almodóvar il Fassbinder degli anni ’80, lui risponde che l’apparenza delle «giacche di cuoio», della «molta droga», della «vita ai margini» e anche del «grasso» certo inganna, perché «se c’è un film che tradisce lo spirito di Genet è Querelle, Germania e Spagna non hanno niente in comune, e in Fassbinder c’è una disperazione quasi suicida che in me non c’è».

SUORE, SARCASMO E PIETÀ

Laberinto è un film-fuga, un balletto accelerato per non fermarsi a riflettere, in questa Madrid «che in quegli anni era il cupre del mondo», sulla difficoltà di uscire dall’isolamento, di trovare nuove forme di passione.

Anche il kitsch è un ingrediente di questa strategia. In Donne sull’orlo di una crisi di nervi fughe, inseguimenti, spostamenti e rovesci hanno per sfondo l’immobilità di scenari e oggetti di plastica — anche le piante e gli animali sono di plastica perché, dice Almodóvar «non ho tempo per loro» —, c’è una «glorificazione del cattivo gusto quotidiano, portato al livello di qualcosa di artistico».

Fa parte di questo cattivo gusto una passione non esibita per la telenovela. Almodóvar raffina il genere, olia alla perfezione i suoi passaggi scoordinati e cuoce a puntino i suoi dialoghi banali. I giochi si fanno sulla superficie del mondo. In Matador, film dell’86 che sull’onda del culto Almodóvar le distribuzioni hanno «ripescato » (è uscito venerdì a Roma) insieme a Che ho fatto per meritare questo (che è dell’85, e uscirà prossimamente ), un ex torero e un’avvocatessa sono ossessionati dal momento della morte, dalla necessità di uccidere per raggiungere il punto più alto, che non è l’orgasmo «fuori dal mondo» dell’Impero dei sensi ma un piacere del tutto astratto, il vano tentativo di dare alla morte la geometria dei movimenti, nell’arena.

L’ultima inquadratura sono i loro due cadaveri nudi davanti al fuoco, in un abbraccio statuario, e il sole che li illumina sgusciato via da un’eclisse. Le citazioni Mishima di cui è cosparso il film rimangono impigliate nella grammatica della telenovela, che le svela in tutta la loro banalità.

Non si è mai visto un film che, per parlare della morte, elaborasse con tanta arguzia la banalità dei suoi luoghi comuni. Per Almodóvar la morte è seria perché banale: la precisione omicida del torero non può che essere oggetto di parodia, ma mentre la parodia annulla semanticamente l’oggetto, qui gli rimane molto stranamente legata. È uno tra i tanti esempi del doppio livello su cui si assesta la percezione dello spettatore di fronte ai film del regista spagnolo.

Alla fin fine ci si chiede: di che cosa parla Almodóvar? Un altro film che la rassegna dell’Instituto Espanol de Cultura ha dato occasione di vedere in questi giorni — martedì, mercoledì e giovedì seguiranno rispettivamente, alle 19 e alle 21, Matador, La ley del desco, Mujeres al bordo de un ataque de nervios — è Entre tinieblas, presentato a Venezia nell’83 e poi distribuito in Italia col titolo L’indiscreto fascino del peccato. In questo film, che si  svolge in un convento di suore dove Yolanda, una ragazza tossicomane braccata dalla polizia, ha trovato riparo, Almodóvar affronta il problema della religione e della morale.

Nel rappresentare suore dedite alla pornografia e a ogni tipo di droga, eccitate da spettacolini cabarettistici improvvisati in convento, con passioni saffiche, e al tempo stesso ispirate dai loro «naturali» sentimenti di pietà, Almodóvar dialoga con Bunuel. Con una differenza: qui non è tanto il sarcasmo surrealista, la trasposizione del pregiudizio controriformistico in un contenitore simbolico che ne mostra il volto pervertito. Almodóvar vive in un
mondo in cui la trasgressione, in quanto azione, è bruciata, quindi vuole ricostruire la realtà su altri piani. Il film, al tempo, fu accusato violentemente da una parte della stampa di vilipendio alla religione. Il regista rispose che non c’è nulla di più religioso che «iniettarsi dell’eroina nelle vene per andare incontro a una persona che si ama», come fa il personaggio di Julieta, la madre superiora, nei confronti di Yolanda.

La risposta non è solo provocatoria: Almodóvar vuole riciclare sempre di nuovo la realtà in un ordine «amorale» diverso e divertito, continuando a giocare però con gli stessi ingredienti umani. Non un oltreuomo, nuovi  apparati di informazione e percezione, ma un geniale continuo bricolage: uno spostamento continuo e depistante dei ruoli sessuali e sociali e dei sentimenti. E proprio per questo non si riesce a capire di che cosa parlano i
suoi film.

QUELLE STRALUNATE RELAZIONI

II film in cui il vuoto di esistere è più tangibile, in cui gli esorcismi della commedia sono deliberatamente trattenuti, è forse Che cosa ho fatto per meritare questo, girato nell’85, dove Almodóvar affronta, obliquamente, le sue origini.

Nel quartiere di Conception, alla periferia di Madrid, una donna, che lavora come cameriera, si trova a vivere in una famiglia che ha lasciato il paese d’origine, in campagna. Le relazioni sono stralunate, ognuno — lei, il marito tassista, il figlio, la nonna — crede di investire i suoi sentimenti su qualcosa, e inoltre in direzioni completamente contrarie. Il vuoto accerchia il piccolo appartamento popolare in cui vive ammassata la famiglia, e la strana complicità della nonna (Chus Lampreave, attrice inquietante nel rappresentare le «idee fisse») con un ramarro, la «religione molto pratica» con cui tenta di sopravvivere, producono un effetto perturbante, che si  sovrappone all’apparente comicità della situazione.

E’ un film sullo sradicamento ma più ancora sulla precarietà ontologica degli affetti e degli oggetti, accettata a forza, con malanimo e acidità. Nel tono di commedia è vicino al neorealismo spagnolo degli anni ’50-60 — soprattutto i film di Fernand Gòmez,

El cochecito di Ferreri, Placido di Berlanga — «più feroce, divertito e meno sentimentale di quello italiano». Per La legge del desiderio, gay-movie dell’86 che ha imposto il regista spagnolo all’attenzione internazionale,  Almodóvar ha inventato uno slogan: «romanticismo selvaggio».

Fuori del moralismo e della trasgressione, immagina, come dice di Donne sull’orlo, una vita liscia, inerziale, in cui rimane, nudo il problema dell’amore. I frequenti amplessi omosessuali sono la traduzione cinematografica più riuscita di un ideale «azzeramento di senso dell’atto sessuale» alla Barthes, che va «sperimentato» soprattutto laddove il Senso tende a potenziarsi per contrasto o richiesta di accettazione.

Ed è forse questa operazione, simile a quella di Stephen Frears in My beautiful laundrette, che ha consentito a un film «molto gay» come La legge del desiderio di sfondare anche fuori del mondo gay. A ogni passo questo intreccio di passioni omosessuali e familiari, che lambiscono la morte, sembra slabbrarsi e perdere la bussola.

Il regista acciuffa il film per i capelli, lo rimette sulle gambe. La legge del desiderio è la variabile impazzita della filmografia di Almodóvar, le cui sceneggiature e strutture narrative risultano sempre impeccabili.

Il collante, qui, è la fisicità, l’abbandono hard al corpo, la fusione con gli oggetti.

Se Matador era un’astrazione favolistica, La legge del desiderio è una concessione alla realtà più immediata, alla pelle, al caldo afoso dell’estate spagnola. «Un film talmente fisico che è quasi iperrealista. Non ci sono personaggi o situazioni surreali, la magia nasce dalle situazioni più banali. Non c’è un momento più magico, più fisico, di quando l’acqua schizza sul corpo di Carmen in piena notte madrilena».