Bandiere palestinesi, pupazzi gonfiabili, slogan e cori nei corridoi altrimenti popolati solo da diplomatici in giacca e cravatta. Nonostante le leggi severe del Paese ospitante e la presidenza in mano ad un manager del petrolio, alla Cop28 di Dubai sono arrivate le proteste.

I PRIMISSIMI giorni la presenza degli attivisti era impercettibile. I pochi presenti dentro l’area dei negoziati hanno atteso, aspettando di capire che clima si respirasse. Poi gli orrori di Gaza hanno fatto da scintilla. Due giorni fa un sit-in è stato organizzato proprio di fronte al padiglione israeliano. Diverse decine di militanti – tutti accreditati come observer, osservatori, per conto di ong e associazioni – hanno letto uno ad uno i nomi dei bambini uccisi dai raid israeliani nelle ultime settimane.

Da quel momento in poi il rubinetto della protesta si è aperto. I più creativi sono gli asiatici: nel giorno della finanza un pugno di militanti si è vestito da Picachu, popolare personaggio della serie Pokemon, per protestare contro i fondi investiti sul fossile dal Giappone. La mattina seguente la venue principale era occupata da organizzazioni della società civile che chiedevano lo stop alla costruzione di nuove centrali a carbone nelle FIlippine.

IL MOVIMENTO per il clima globale si è trovato di fronte ad una scelta nei mesi scorsi: boicottare o protestare? Molti hanno scelto la prima strada, soprattutto nel nord globale. Sono presenti le ong storiche, ma i movimenti dal basso europei e statunitensi hanno disertato l’incontro. Altri, soprattutto nel global south, hanno deciso di partecipare. Chi ha intrapreso questa seconda strada si è riunito nella Cop 28 Coalition, una rete di organizzazioni di livello globale che a Dubai ha portato centinaia di persone, tutte regolarmente accreditate come osservatrici. Riesco a parlare con Pang Delgra, ventotto anni, filippina. Si definisce socialista ed è parte dell’Asian Peoples Movement on Debt and Development. Vive a Manila, ma viene da un’isola del Mindanao, nel sud, «vicino ai campi, dove puoi vedere come le attuali politiche alimentari siano dominate dall’interesse privato, e il cibo non è più un diritto ma qualcosa su cui fare profitto», ci dice.

QUANDO SI È saputo che la ventottesima edizione delle Conferences of Parties avrebbe avuto luogo negli Emirati Arabi Uniti, un paese in cui i diritti politici sono estremamente limitati, molti hanno espresso timori. La presidenza e l’Unfccc, l’organismo Onu che organizza i negoziati, hanno assicurato per mesi che ci sarebbe stato spazio per la società civile e le proteste, ma le dichiarazioni non sono bastate a rassicurare tutti. Alla fine il compromesso è il seguente: le proteste ci sono, ma solo nella Blue Zone, il cuore di Cop28 cui si accede solo con apposito badge fornito a delegati, giornalisti e, appunto, osservatori come sono gran parte degli attivisti. «Ogni giorno siamo in contatto col Secretariat, la dirigenza dell’Unfccc, e contrattiamo cosa si può e non si può fare» ci spiega Pang.

Emblematico il caso del sit-in per la Palestina. La dirigenza ha vietato le bandiere palestinesi («non è ammesso nessun riferimento ad alcuno Stato» ci dice sempre Pang) e alcuni slogan, come l’ormai celebre «From the river to the sea, Palestine will be free».

Per ovviare alle restrizioni i manifestanti hanno portato con sé bandiere raffiguranti una fetta d’anguria, simbolo della Palestina per la sua assonanza cromatica. Piccoli escamotage per guadagnare un pezzetto di democrazia alla volta. La Blue Zone è gestita direttamente dalle Nazioni Unite, territorio extranazionale per la durata della Conferenza. A sorvegliarla è la United Nations Police, versione civile dei più celebri caschi blu, non la polizia emiratina. Per questo è l’area prescelta da chi protesta. A nessun manifestante finora è successo alcunché di spiacevole anche una volta uscito dal territorio Onu, e gli Emirati Arabi Uniti stanno mantenendo la loro promessa di tolleranza. «Ma quando lasciamo il complesso nascondiamo i simboli politici – ci spiega Pang – e la paura un po’ rimane».

CHI INVECE non sembra avere grandi limitazioni sono i lobbisti del fossile. Quest’anno si sono registrati in 2.456 secondo Kick Polluters Out. L’anno prima alla Cop27 di Sharm el-Sheik erano 646, ed era già record. Per dare un confronto: i partecipanti totali alla Cop1 di Bonn del 1995 erano meno di 4000. E a questa Cop i rappresentanti delle dieci nazioni più vulnerabili messe assieme, come fa notare su X il giornalista Ferdinando Cotugno, sono 1.509. D’altronde, dicono i più malevoli, a Cop28 è lobbista persino il presidente.

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