Avrei voluto l’impegno a uscire dai fossili. Ma lo faremo una volta per tutte alla prossima Cop, perché abbiamo mostrato con il loss and damage che possiamo fare l’impossibile» (Kathy Jetnil-Kijiner, poetessa e inviata climatica delle isole Marshall). La storica menzogna delle incubatrici che oltre trent’anni fa spianò la strada alla prima «guerra per il petrolio» contro l’Iraq fa parte del curriculum della Hill & Knowlton, l’agenzia multinazionale di public relations che ha curato la comunicazione per la conferenza delle parti Cop27 a Sharm el Sheikh. Malgrado i suoi decenni al servizio della disinformazione e greenwashing dei suoi clienti fossili. Sempre più lobbisti del fossile (sponsor a parte) affollano del resto le annuali conferenze al capezzale del clima. Cambiare formula?

PARTENDO DALLO «SHARM EL SHEIKH implementation plan», il documento finale approvato ai tempi supplementari alla Cop27 dai 198 Stati (si può consultare sul sito della Unfccc), cosa faranno mai nei prossimi mesi i vari attori statali e imprenditoriali? Intanto sul capitolo VI dell’accordo, il più atteso: il fondo internazionale loss ad damage, meccanismo di finanziamento ad hoc che risponde alla «profonda preoccupazione per perdite e i danni subiti dai paesi in via di sviluppo e associati agli effetti avversi dei cambiamenti climatici, con conseguente aggravio del debito e difficoltà nel raggiungimento degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile».

QUESTI FONDI PER I PIU’ VULNERABILI e anche meno responsabili (vietato parlare di risarcimento del debito climatico dei ricchi: troppo divisivo) sono ormai il terzo pilastro d’azione che si aggiunge ai due, mitigazione e adattamento, decisi alla conferenza di Parigi del 2015. Asad Rehman, del movimento War on Want, ha fatto notare la valenza di svolta geopolitica del risultato ottenuto, con l’importante ruolo del Pakistan, «grazie all’alleanza fra Stati del Sud globale e movimenti, che hanno resistito ai tentativi di Ue e altri di separare i paesi più poveri e l’alleanza dei piccoli Stati insulari dagli altri del Sud globale».

MA E’ ANCORA DA SCOLPIRE, questa pietra miliare, e il diavolo è nei dettagli. «Per ora abbiamo una cassaforte vuota», ha commentato il think tank Power Shift Africa. Chi darà, chi riceverà (magari con altri tentativi di circoscrivere il più possibile paesi vulnerabili), come, quando, quanto (i disastri sono e saranno di entità stratosferica)? Già sono poco finanziati gli altri meccanismi di sostegno per l’adattamento e la mitigazione. Il fondo sarà reso operativo entro fine 2023 – ci lavorerà un Comitato di transizione con 24 paesi membri.

L’INVIATO CINESE PER IL CLIMA Xie Zenhua, sulle modalità di conferimento al fondo da parte dei vari paesi ha detto: «La soluzione è semplice: la responsabilità è comune ma differenziata» (lo afferma la convenzione Unfccc Onu del 1992). E anche: «La Cina non ha responsabilità sul loss and damage, ma vuole aiutare nei paesi in via di sviluppo ad aumentare il loro adattamento attraverso la cooperazione Sud-Sud e lo sta già facendo». Dal canto suo, l’inviato statunitense sul clima John Kerry ha detto ok al fondo solo dopo che era stata garantita l’assenza di ogni responsabilità legale per i danni climatici inferti ieri e oggi.

AVINASH PERSAUD, NEGOZIATORE delle Barbados, avverte: «Adesso dobbiamo raddoppiare gli sforzi per una transizione nel campo dell’energia, dell’agricoltura, dei trasporti, così da limitare perdite e danni futuri». Ma mancano passi avanti nel Piano di Sharm rispetto alla Cop26 di Glasgow quanto al tema della riduzione delle emissioni, e nemmeno si nomina – a parte il carbone – una progressiva fuoriuscita dai combustibili fossili (chiesta da India e altri 80 paesi, boicottati però dagli Stati petroliferi e dai lobbisti, ricorda Greenpeace).

QUESTO FA DIRE A LIDY NACPIL, dell’Asian Peoples Movement on Debt and Development: «Il silenzio circa la progressiva eliminazione dei combustibili fossili, e la continua inclusione di false soluzioni, significano più perdite e danni! Dobbiamo insistere sulle lotte, nei nostri paesi e a livello internazionale». Più ottimista un rapporto del think tank Eciu (Energy and Climate Intelligence Unit): le nazioni (anche gli emettitori top), le città e anche le imprese lavorano davvero per ridurre le emissioni.

MA DAVVERO VOGLIONO ONORARE il tetto dell’1,5° i paesi del nord globale che, partendo privilegiati, si affannano (magari fra una trivella e l’altra) a criticare i «troppi paesi che non sono pronti a fare passi avanti»? Meena Rahman della storica rete Third World Network chiede loro di «assumere la leadership e rivedere i rispettivi impegni nazionali, pianificando la fuoriuscita dai fossili con urgenza. La loro è una responsabilità storica: entro il 2050 devono arrivare a zero emissioni reali, anzi a emissioni negative entro il 2050, e non a semplici zero emissioni nette». Ecco.

LA PARTITA DELLE FALSE SOLUZIONI si gioca sul concetto di «neutralità climatica», che si vuole ottenere senza rinunciare al funzionamento dell’economia capitalistica e agli stili di vita planetari. Ma è davvero possibile? Solleva domande il riferimento, nell’accordo (capitolo III. Energia), a un diversificato «mix energetico pulito che comprenda energia rinnovabile ed energia a basse emissioni a tutti i livelli, in linea con le situazioni nazionali». In pratica, il gas e magari il nucleare? Del resto nel capitolo IV. Mitigazione, oltre richiamare giustamente l’efficienza energetica e la giusta transizione, si chiede ai paesi di ridurre il ricorso all’«energia da carbone unabated», ovvero «non mitigata». E come si mitiga? Con le tecnologie Ccs (Cattura e stoccaggio del carbonio) e loro varianti (Ccus), che centinaia di organizzazioni l’anno scorso hanno bollato come «false soluzioni temporeggiatrici». Ma proprio su queste punta la strategia dei paesi petroliferi, in primis l’Arabia saudita. Ci si chiede poi quanto spazio avrà la discussa energia dai rifiuti e dalle biomasse, al centro del simposio Venice 2022.

CERTO, SU AGRICOLTURA E SICUREZZA alimentare il Piano di attuazione di Sharm (al capitolo XV) istituisce un gruppo di lavoro congiunto quadriennale; ma per Edward Mukiibi, presidente di Slow Food International, «la conferenza non è riuscita a consegnare un piano ambizioso per il futuro del cibo. Invece di abbandonare il sistema produttivo intensivo basato sui fossili ci si è spostati verso misure di adattamento. Più libertà ai giganti dell’agroindustria e al loro greenwashing». Insomma il lavoro di pressione per l’agroecologia deve continuare. Del resto una conversione agro-zootecnica sarà necessaria sia per onorare la richiesta i paesi (punto IV.14) di ridurre le emissioni di gas serra diversi dall’anidride carbonica, compreso il metano, da qui al 2030 sia per la protezione della biodiversità.

PROTEZIONE DELLA BIODIVERSITA’ che è nel preambolo del Piano – è prossima la Cop15 della Convenzione Onu (Cbd), a Montreal a dicembre. Richiamata anche l’importanza di assicurare l’integrità degli ecosistemi terrestri e acquatici, e fermare la perdita delle foreste, con relativo rilascio di carbonio. Riconosciuto il ruolo essenziale degli attori non statali, in primis i popoli indigeni. Speso danneggiati, però, dalle «soluzioni basate sulla natura» – molto ambiti come offsets sul mercato del carbonio.