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La controriforma sanitaria contro il «sacrilegio socialista»

La controriforma sanitaria contro il «sacrilegio socialista»Stati uniti, protesta contro la Trumpcare – La Presse

Stati uniti La «nuova America» apre a Wilders: decostruzione del welfare e destino demografico

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 15 marzo 2017
Luca CeladaLOS ANGELES

La commissione tecnica sul bilancio ha emesso il rapporto sulla controriforma sanitaria spinta dal Gop. Senza sorprendere nessuno ha  calcolato che la nuova legge priverebbe milioni di americani della mutua. Per la precisione 14 milioni di cittadini perderebbero la copertura sanitaria entro il 2018 e per il 2026 sarebbero altri 10 milioni. Entro quell’anno saranno in tutto 56 milioni i cittadini sprovvisti di tutela sanitaria nell’unica democrazia industrializzata al mondo a non garantire un qualche tipo di previdenza universale. «Non mi sorprende – ha commentato lo speaker repubblicano Paul Ryan – se decade l’obbligo di assicurarsi è chiaro che lo faranno meno persone». Ma per Ryan l’uscita dal mercato di 20 milioni di «clienti» è un dato positivo.
LA RIFORMA «ibrida» di Obama introduceva l’obbligo di munirsi di polizza privata a fronte di sussidi statali per i meno abbienti. Risultato: 20 milioni di persone assicurate in più. Per Ryan e i repubblicani però  il problema non è la mancanza di copertura ma il «sacrilegio socialista»  che obbliga ad averla. La soluzione, al solito, è il libero mercato in cui solo chi può permetterselo ha accesso alle cure. Il regime post-welfare delineato dal congresso di destra è quindi più apertamente «darwinista» di prima. Nelle parole di un altro repubblicano, Roger Marshall, i poveri devono essere liberi di non assicurarsi: «Esiste un gruppo che non vuole assicurarsi (…) Non si può basare la  sanità attorno a una minoranza che semplicemente non vuole prendersi cura di sé».

QUESTA visione meritocratica e moralista della salute è indicativa del progetto sociale della destra reaganista ma è complicata dalla, pur ibrida, espansione dei servizi fatta da Obama. Sono proprio i settori trumpisti infatti, più anziani, rurali e working class, i probabili perdenti rispetto ai più facoltosi giovani professionisti delle città. I repubblicani moderati temono dunque – giustamente –l’insurrezione dei propri elettori. Anche su questo terreno si profila insomma lo scontro fra populisti e integralisti dello stato minimo – le due anime incompatibili del trumpismo.

ACCANTO alla «decostruzione dello stato amministrativo», per usare le parole di Steve Bannon, prende intanto forma sempre più nitida il più ampio progetto ideologico suprematista del nuovo regime americano, anche con manovre sempre più esplicite di avvicinamento ai nazionalismi  europei. A queste hanno dato voce per ultime le dichiarazioni incendiarie di Steve King. In un tweet di domenica il parlamentare Gop ha dato il proprio endorsement al leader populista olandese: «Wilders ha capito che cultura e demografia sono il nostro destino. Non possiamo sanare la nostra civiltà coi figli degli altri».

UNA MANO tesa ai nazionalismi europei (e un occhiolino al suprematismo bianco russo) sono le prime prove di un’internazionale xenofoba transatlantica. Non a caso il tweet di King è stato immediatamente ripreso da David Duke, già candidato del Ku Klux Klan che non ha potuto non apprezzare la sintonia di intenti e la schiettezza con cui si eleva la purezza della razza a programma politico. Un lapsus, forse, frutto comunque della nuova spavalderia data dall’avere un suprematista del calibro di Bannon come «stratega» del presidente Usa.

E UNA RETORICA che rivela sempre più palesemente il trumpismo come movimento per una restaurazione bianca e quindi per il fondamentale ripristino di un ordine sociale precedente alla diversity multiculturale che ha caratterizzato l’ultimo mezzo secolo di traiettoria nazionale. Negli ultimi giorni, coi nativi Sioux in corteo davanti alla Casa Bianca e le retate di ispanici, quella parabola americana è apparsa come non mai compressa su se stessa – e mai così attuale il retaggio della sua storia, la cui costante e fondamentale dinamica, dalla fondazione, alla conquista continentale dei diritti civili, è stata il predominio violento  degli uomini bianchi. Ovvero quel «destino demografico» così  chiaramente ripreso da King, ed efficacemente mobilitato da Trump come motivazione implicita della propria ascesa politica.

IL PROGETTO allucinatorio combacia coi nazionalismi di sempre e porta nella stessa inevitabile direzione.  A gestire i prossimi capitoli di questo collaudato copione ci sarà il capo sceriffo Jeff Sessions. Il  ministro di Giustizia segregazionista avrà il compito di  delegittimare gli elettori di minoranza etnica e promuovere l’intesa «totale» con la polizia nei prossimi inevitabili scontri con gli afro americani oltre che potenziare le ronde anti immigrati. Si tratta di una inversione epocale e di una bomba a mano sulla società multiculturale – quella dei giovani «post-razziali» cui verrà riproposta – e imposta –  l’idea  di un’America integralista e intollerante. Un colpo di coda autoritario e poliziesco dall’ignoto potenziale distruttivo e fratricida.

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