Abu Ahmed da otto mesi si adatta a tutto pur di sopravvivere. Per anni, ogni mattina alle 5, ha lasciato il suo villaggio a qualche chilometro da Betlemme, ha raggiunto il «posto di blocco 300» dell’esercito israeliano e, dopo una lunga attesa in fila con altre migliaia di pendolari, è entrato a Gerusalemme per raggiungere il suo posto di lavoro in una grande pasticceria che rifornisce caffè, hotel e ristoranti della zona ebraica della città. Ora non più.

«DOPO IL 7 OTTOBRE mi è stato sospeso il permesso di lavoro e non posso più uscire dalla Cisgiordania – ci dice – Quel lavoro a Gerusalemme era molto importante per il sostentamento della mia famiglia. I proprietari della pasticceria sono pronti a riprendermi ma c’è un divieto (del governo Netanyahu, ndr) che riguarda tutti i palestinesi della Cisgiordania. Ora faccio ciò che capita pur di guadagnare almeno quanto serve per mangiare». Abu Ahmed è uno dei 130mila palestinesi ai quali dopo l’attacco di Hamas, Israele non permette più di lavorare nel suo territorio e a Gerusalemme.

UNA PUNIZIONE collettiva che si aggiunge all’enorme difficoltà che questi e tutti gli altri lavoratori nei Territori occupati incontrano da sempre nel trovare un lavoro stabile. La debolezza dell’economia palestinese e gli elevati livelli di disoccupazione sono in gran parte il risultato di 57 anni di occupazione militare israeliana. Le restrizioni limitano la crescita del Pil palestinese e la creazione di sufficienti posti di lavoro.
Una valvola di sfogo è l’impiego in Israele, principalmente nei cantieri edili e in agricoltura, dei manovali della Cisgiordania, ma Netanyahu e i ministri dell’estrema destra appaiono determinati a confermare le ritorsioni decise nei giorni successivi al 7 ottobre. Dopo otto mesi, solo pochi palestinesi cisgiordani sono tornati ai loro impieghi in Israele

NON SORPRENDE che la disoccupazione nei Territori occupati sia oggi superiore al 50%, secondo il rapporto presentato giorni fa dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) sull’impatto della guerra. Anche se questo dato è la conseguenza soprattutto dell’80% che si registra a Gaza devastata dall’offensiva militare israeliana, non passa inosservato il 32% di disoccupati in Cisgiordania. «La situazione in realtà (in Cisgiordania) è molto peggiore, perché i nostri dati non includono i palestinesi che hanno rinunciato a cercare un lavoro», ha avvertito durante un briefing Ruba Jaradat, direttore regionale dell’Oil. «Con questo livello elevato di disoccupazione, le persone non saranno in grado di garantire il cibo alle loro famiglie – ha aggiunto Jaradat – Ciò ha un impatto negativo anche sulla loro salute, non spenderanno per curarsi e inoltre (a Gaza) anche se hanno soldi, non ci sono ospedali che possano far fronte a una situazione catastrofica». I centri sanitari in Cisgiordania hanno visto calare progressivamente le prenotazioni per le visite specialistiche.

«LA SANITÀ pubblica in Cisgiordania non può garantire molto oltre al pronto soccorso e alla chirurgia d’emergenza a causa della mancanza di fondi e tanti palestinesi si rivolgono ai centri privati per gli esami clinici. Al nostro ora ne vengono sempre meno. La gente non ha lavoro e non può pagare per la salute. Spesso curiamo gratuitamente i malati cronici e i bambini», ci dice un medico di Betlemme. Le famiglie, nelle città e nei villaggi, si aiutano tra di loro. Associazioni religiose musulmane e cristiane assicurano cibo e medicine a quelle più in difficoltà, ma il bisogno è enorme e cresce con il passare delle settimane. Dall’inizio della guerra il Pil palestinese si è contratto di quasi il 33% – in prevalenza a Gaza, ovviamente – secondo i dati dell’Oil. E l’eventuale collasso finanziario dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) metterà a rischio decine di migliaia di impiegati pubblici che già fanno i conti con stipendi pagati irregolarmente e solo in parte.

L’AGENZIA DI STAMPA palestinese Wafa scrive che «la soffocante crisi finanziaria che affligge il governo palestinese (in Cisgiordania, ndr) ha gettato pesanti ombre su settori vitali, sia governativi che privati, con pericolose ramificazioni che minacciano il collasso di alcuni». La situazione dell’Anp – con debiti per miliardi di dollari – è peggiorata ulteriormente da quando il ministro delle finanze israeliano e uno dei leader dell’estrema destra, Bezalel Smotrich, ha ordinato il blocco all’origine dei fondi trasferiti dal governo palestinese alla Striscia. Questa decisione, insieme alle precedenti detrazioni unilaterali dalle entrate fiscali palestinesi e ai tagli alla fonte dei fondi per i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici, ha esacerbato la crisi. Smotrich ha bloccato sino a oggi sei miliardi di shekel dell’Anp – un miliardo e mezzo di euro – con la motivazione della lotta ai «finanziamenti per i terroristi». Una misura che sta aggravando, tra le altre cose, il debito del ministero della salute palestinese che non riesce più a pagare le aziende fornitrici di medicinali, attrezzature mediche, materiali per i laboratori e le dialisi.
Se Israele continuerà a bloccare i fondi derivanti da dazi doganali e altre tasse che costituiscono il 70% delle entrate pubbliche palestinesi, non collasserà solo la sanità ma l’intera Anp, ha avvertito a fine maggio la Banca mondiale.