In un discorso tenuto ad agosto a Shenyang a proposito delle riforme di mercato, Xi Jinping ha sottolineato l’importanza del «non cambiare i colori dei fiumi e delle montagne». Ovvero, non permettere alle forze di mercato e agli investitori stranieri di arrivare a “cambiare i colori” della Repubblica popolare cinese. Ma cosa fare quando quei colori iniziano a sbiadire, a non brillare più come prima?

Quando Xi Jinping salì al potere dieci anni fa, la Cina era appena diventata la seconda economia al mondo. Cresceva a un tasso medio annuo del 6.7% e nel 2021 il suo Pil ha quasi raggiunto i 16 miliardi di euro, arrivando a costituire il 18.4% dell’economia globale. In molti negli ultimi anni hanno iniziato a prevedere che la Cina avrebbe spodestato gli Stati uniti entro il 2030. Ma la situazione sembra ora meno promettente.

Gli economisti hanno declassato le stime per il 2022, arrivando a prevedere una crescita massima tra il 3.3 e il 2.7%, lontana dall’obiettivo del 5.5%. A settembre, lo yuan ha toccato il valore più basso degli ultimi 14 anni. La crescita demografica è in contrazione. Un giovane su 5 di età compresa tra i 16 e i 24 anni nelle aree urbane è disoccupato. Il rallentamento delle esportazioni ha provocato la chiusura di numerose fabbriche, causando la perdita del lavoro per molti lavoratori migranti.

È uno dei momenti finanziari più duri da quando Deng Xiaoping lanciò la stagione di riforma e apertura alla fine degli anni ’70. Come si è arrivati a questo punto? «La Cina è venuta meno all’impegno di implementare quelle riforme strutturali che le avrebbero permesso, con il calo della domanda internazionale, di sganciarsi da un modello di sviluppo basato sulla produzione di beni a basso valore aggiunto», spiega Filippo Fasulo, Co-Head dell’Osservatorio Geoeconomia presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). «Dal 2008 si è usato lo stimolo economico con l’idea di sostituire con investimenti e spesa pubblica la domanda internazionale. Ciò ha funzionato fino a quando nel 2013 Xi ha riconosciuto che tale approccio non era più produttivo, e ha introdotto il concetto di Nuova Normalità: dare priorità alla qualità, piuttosto che alla quantità, fare riferimento ai consumi interni come driver di crescita e ridurre la dipendenza da interscambio e spesa pubblica. Ma questa transizione non è mai avvenuta del tutto».

Le politiche economiche dell’ultimo decennio mostrano però un cambiamento di rotta. La leadership sembra aver ritenuto che le riforme e l’apertura dell’era post-Deng non stessero mettendo la Cina sulla strada del “ringiovanimento nazionale”. Una guida più dirigista del settore privato e la “prosperità comune” appianatrice di disparità sociali lo avrebbero fatto.
Ma il crackdown sul settore privato del Paese, iniziato alla fine del 2020, ha raffreddato l’espansione economica. La stretta sugli sviluppatori immobiliari fortemente indebitati, a cui è stato impedito di chiedere denaro in prestito alle banche per progetti futuri nel tentativo di far sgonfiare la bolla speculativa, ha contribuito al crollo del settore immobiliare (che pesa circa il 30% del Pil), esteso il malcontento dei mutuatari e il timore di rischi finanziari sistemici.
C’è poi la rigida aderenza di Pechino alla politica zero-Covid, con lockdown intermittenti e test continui, che hanno minato sia i consumi interni che gli investimenti esteri. Xi ha più volte difeso la strategia anche se «potrebbe danneggiare l’economia» e ha esortato i funzionari a guardare alla relazione tra prevenzione del virus e crescita economica «da un punto di vista politico».

Con l’economia che rallenta, la narrativa nazionalista diventa infatti una questione di legittimità per il Partito. «Gli appelli di Xi all’unità rispondono a questo – spiega Fasulo -, la prima strategia è quella di stringere le maglie ideologiche e fare leva sul concetto di sicurezza nazionale. La seconda sarebbe garantire altre forme di crescita, ma qui Pechino sembra più carente. Elemento chiave della Nuova Normalità è il focus sull’innovazione: dopo decenni di trasferimento tecnologico (forzato o volontario) dell’Occidente, ora c’è una chiusura netta (e un rapporto tutto da ricostruire). È una delle principali vulnerabilità a cui l’amministrazione cinese dovrà dare risposta, soprattutto se punterà sulla doppia circolazione, in cui ad essere prediletta è la dimensione interna, che non significa solo consumi domestici, ma anche autarchia tecnologica». Nella visione che Xi sembra voler affermare, perseguire l’autosufficienza significa mettere in sicurezza non solo lo sviluppo tecnologico del Paese, ma anche la propria economia, meno suscettibile a dipendenze dall’esterno, e con questo salvaguardare la tenuta del sistema politico corrente.

Quindi, ritorno alle riforme orientate al mercato con politiche più pragmatiche e ruoli rafforzati per il settore privato oppure politica economica ancora più rigida e incentrata sul ruolo dello Stato? «La risposta starà nella tensione tra esigenze economiche ed esigenze di mantenimento di coesione nazionale e sicurezza – parola, quest’ultima citata da Xi circa 50 volte nella relazione di apertura del XX Congresso . Più Xi avrà il timore che un’eventuale apertura possa creare instabilità o collasso dell’ordine sociale, più manterrà un controllo serrato. A tal riguardo – conclude Fasulo – non sono particolarmente ottimista, sarà una fase complessa…».