Ffestival di Cannes ultimo giorno. Oggi saranno annunciati i vincitori di questa edizione numero 76 attraversata da malumori, polemiche – Jeanne du Barry di Maiwenn poco gradito per la presenza di Johnny Depp, Le retour di Catherine Corsini, in concorso, con le accuse di maltrattamenti sul set – qualche collasso organizzativo (la proiezione e l’incontro con Pedro Almodovar che ha lasciato fuori con biglietti prenotati almeno duecento giornalisti), il ritorno alla piena «normalità» dopo gli anni di pandemia. Da qualche giorno sulla Croisette, chiuso il Marché del Film, gli addetti ai lavori hanno lasciato posto ai turisti, complice il sole quasi estivo , e chi è rimasto si è lanciato nella solita scommessa: «Chi vincerà la Palma d’oro?».

IN CHIUSURA è arrivato La chimera, il nuovo e atteso – la stampa internazionale lo mette fra «le gemme» del festival – film di Alice Rohrwacher, regista cresciuta internazionalmente nel festival francese dove ha esordito con la sua opera prima, Corpo celeste alla Quinzaine (2011), e poi è tornata sempre in concorso vincendo il Grand Prix della giuria con Le meraviglie e il premio alla sceneggiatura con Lazzaro felice. E è Alice Rohrwacher anche l’unica autrice sulla Croisette delle generazioni italiane più giovani del nostro cinema, che quest’anno oltre ai tre film in gara non aveva alcun titolo nelle altre sezioni composte appunto per lo più da esordi e opere indipendenti.

La chimera dunque che è un sogno, una favola, il racconto di amori perduti, del sacro e del profano, di figure da un passato neppure tanto remoto in quel paesaggio fuori del tempo che la regista inventa film dopo film, realistico e insieme immaginario, quasi come la sua personalissima Monument Valley. È qui, in un paesino tra la Toscana e l’Umbria, quella che un tempo era la terra degli etruschi, che arriva un ragazzo straniero, l’«l’inglese» lo chiamano. Chi è, cosa cerca, che pensa? È un sognatore o un attaccabrighe? Ha un completo bianco un po’ sdrucito, l’aspetto stralunato del viaggiatore di una novella ottocentesca. Nel sonno gli appare una ragazza bionda, bella, sembrano innamorati, lei che in quel dormiveglia è «reale», aperti gli occhi svanisce e non c’è più. Arthur (Josh O’Connor) non dice nulla di sé, esiste in quel presente che attraversa e nella sua ostinazione a cercare l’amata Beniamina che lo rende già passato.

Cosa è allora La chimera? Per i suoi amici del paese sono le tombe etrusche in cui entrano a rubare gioielli, statuine per rivenderli ai mercanti dell’arte. Sono i «tombaroli», ai campi dei loro nonni preferisco questa rischiosa ma meno faticosa «arte della sopravvivenza», è un gruppo chiassoso, un po’ pasticcione, amano bere, fare festa e ballare, niente di organizzato. Il tizio a cui danno le refurtive è misterioso, li paga poco ma a loro va bene così. Hanno la fortuna di avere Arthur che ha una dote speciale, sa «sentire» le tombe da sopra la terra, anche se lui non sembra interessato a quei tesori. Cerca altro, per Arthur la «chimera» è la sua amata perduta, Orfeo di un’Eurdice che gli sfugge, che insegue per entrare in quella porta dell’al di là da cui riprenderla.

CI CREDE anche la madre della ragazza, nobildonna decaduta (fantastica Isabella Rossellini) che vive in una casa bella e caotica insieme a una giovane brasiliana, sua allieva di musica, dal nome strano: Italia (Carol Duarte). Anche lei però ha dei segreti, e forse delle fantasie per inventare un altro mondo. Perché è un film di storie che si inseguono, si intrecciano, ritornano l’una sull’altra La chimera, nel quale la regista – che è stata quest’anno nella cinquina degli Oscar col corto Le pupille – afferma una libertà cinematografica dolcemente capace di stupire, di andare oltre i «codici» e le gabbie che oggi formattano molti film – sua anche la sceneggiatura da un soggetto scritto insieme a Pietro Marcello e Carmela Covino. Il movimento è quello di una ballata che ci riporta a degli Ottanta ancora innocenti malgrado tutto (l’81 di Gli uccelli di Battiato) fra feste patronali, allegria, sfrontatezza, la natura dei luoghi, l’esperienza di una comunità: strofe di canzoni, parole che passano da una bocca all’altra, l’oralità collettiva immaginifica che mescola fantastico e realtà. Ci credi, è vero, esiste? Poco importa perché questa è la meraviglia del cinema. E da questa narrazione orale che si fa immagine Rohrwacher traccia le linee che separano i tempi, li sovrappone, li mescola, li trasforma. Quando i «tombaroli» – tra cui Vincenzo Nemolato – si rivolgono alla macchina da presa parlano di Arthur al passato, forse anche lui è una figura leggendaria, un personaggio di questa mitologia di cui si riportano le gesta, un frammento di memoria.

SACRO E PROFANO. Reale e fantastico. Rohrwacher li mescola con leggerezza quasi come in una magia nella grana del 35 millimetri e del super 16 (la fotografia è ancora una volta di Hélène Louvart) che danno alle immagini una potenza visionaria semplice, e piena di invenzioni formali, a cui non servono «dispositivi» per impressionare o affermare qualche teoria. C’è la poesia dell’immaginazione a tracciare una mappa in cui personaggi, spazi, epoche, desideri portano con sé qualcosa nel nostro contemporaneo e insieme di universale. In cui ritornaoquelle riflessioni che fanno parte della sua poetica, che risuonano in ogni sua  opera, e che riguardano i cambiamenti dei posti e di chi li abita, ciò che si perde per sempre, qui una strana innocenza persino nel furto a beneficio di un business e di un nuovo ordine da cui scompaiono le figure meno «razionali». Rimangono però le crepe, i bordi, le zone resistenti: è lì che il cinema porta scompiglio seguendo un filo rosso che permette a ogni cosa di accadere per chi guarda e per chi lo fa. Il suo è uno sguardo pieno di immaginazione, che sa spostare le attese, e di ciò che racconta cogliere il sentimento profondo, l’essenza più vera, mai nostalgica ma appunto immaginifica: il senso di uno spazio libero dove ancora è possibile inventare.