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La botte di ferro di Trump: la fedeltà della base

La botte di ferro di Trump: la fedeltà della baseIl presidente Usa Trump a un comizio – LaPresse

Stati uniti Mentre la stampa parla con insistenza di impeachment e di "fine corsa", la minoranza di americani che lo ha eletto continua a garantirgli sostegno, perché ha saputo farsi interprete di frustrazioni e risentimenti di antica data

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 18 aprile 2018

«Siamo entrati nella fase finale della presidenza Trump», ha annunciato il New Yorker in un articolo pubblicato sabato, da allora citatissimo, anche per la coincidenza con l’uscita del libro di James Comey, l’ex direttore dell’Fbi licenziato dal miliardario che attualmente occupa la Casa bianca.

La ragione indicata dal New Yorker sta nell’arresto dell’avvocato-consigliere di Trump, Michael Cohen, un provvedimento che dovrebbe rapidamente portare alla luce tutti i segreti di famiglia e tutte le operazioni illegali del palazzinaro di New York.

Certo, è molto probabile che Cohen parli ma difficilmente le sue rivelazioni saranno di dimensioni tali da rendere concreta la possibilità di rimuovere Trump prima della fine del suo mandato, a cui mancano ancora due anni e nove mesi.

Prima di tutto Trump può promettergli la grazia che, a differenza di quanto avviene in Europa, può intervenire in qualsiasi momento del procedimento giudiziario, anche prima che il processo vero e proprio abbia luogo. Quindi Cohen potrebbe anche tenere la bocca chiusa e confidare nell’interesse del presidente a occultare per quanto possibile gli affari sporchi di cui lui è a conoscenza.

In secondo luogo, la minoranza di americani che ha eletto Trump era perfettamente cosciente delle bizzarrie del presidente, arcinote, e probabilmente si aspetta che molte delle sue imprese siano di dubbia legalità, se non crimini veri e propri. Lo hanno votato ugualmente perché Trump ha saputo farsi interprete di frustrazioni e risentimenti di antica data: i suoi sostenitori sono minoritari nel paese ma gli sono incredibilmente fedeli, come dimostra il fatto che il suo gradimento nei sondaggi non si è mosso di un centimetro da quando è entrato in carica ad oggi.

Era attorno al 40% il giorno in cui ha giurato ed è il 40% oggi, nonostante le sue promesse non siano state realizzate e nonostante l’immagine di confusione e incompetenza trasmessa dalla Casa bianca in questi 15 mesi.

Infine, Trump non ha alcuna intenzione di dimettersi e la rimozione attraverso l’impeachment è un processo politico che, in tutta la storia degli Stati uniti dal 1787 ad oggi, non è mai arrivato a conclusione positiva. Il procedimento deve iniziare dalla Camera, dove per il momento c’è una maggioranza repubblicana che nulla può smuovere.

In ogni caso, le mozioni per destituire un presidente sono state approvate solo tre volte in 230 anni: contro Andrew Johnson nel 1868, contro Richard Nixon nel 1974 e contro Bill Clinton nel 1999. Nei casi di Johnson e Clinton il Senato assolse il presidente. È vero che nel 1974 Richard Nixon si dimise piuttosto che affrontare il processo ma non è affatto sicuro che, se avesse sfidato i suoi nemici, si sarebbe trovata la necessaria maggioranza dei due terzi per destituirlo.

Dobbiamo quindi aspettarci nelle prossime settimane ogni genere di rivelazioni succose sul Berlusconi americano ma, finché la sua base gli rimane fedele, Trump resterà alla Casa bianca: i miliardari megalomani e ossessionati dalle donne a quanto pare hanno sette vite, almeno in politica.

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