L’uniformità è l’elemento distintivo dell’agricoltura moderna, il contrario di biodiversità. Al crescere dell’una, l’uniformità, cala l’altra, la biodiversità. Oggi al supermercato troviamo un numero limitato di varietà di frutta e le farine con cui si produce la pasta derivano da pochissime varietà di grano. Questo è un esempio di quanto abbiamo eroso il grande patrimonio di varietà di piante coltivate e, conseguentemente, di come abbiamo radicalmente trasformato l’agricoltura, rendendo i coltivatori dei semplici licenziatari». Lo afferma Fabio Ciconte – direttore dell’associazione ambientalista Terra! – presentando il suo libro Chi possiede i frutti della terra (Editori Laterza, euro 16). «Quello che racconto – prosegue – è che fine ha fatto la biodiversità delle piante che coltiviamo per l’alimentazione. Fino a oggi ne abbiamo perso il 75% e quelle rimaste, le poche decine che mangiamo, sono sempre più spesso in mano a gruppi industriali che detengono la proprietà intellettuale della singola varietà».

Tutto questo dove ci sta portando?

Praticamente si sta trasformando l’agricoltura in una specie di franchising in cui l’azienda che possiede il brevetto su una data varietà, ed è questa la grande novità, controlla l’intero mercato. Tutto ciò succede per molte varietà di mele, di uva senza semi, per il kiwi giallo. Attorno a questa proprietà intellettuale si crea un club varietale. Gli agricoltori che ne fanno parte possono coltivare quella varietà, chi ne rimane fuori, la maggior parte, è espulso da quel mercato. La conseguenza è che non solo stiamo perdendo biodiversità, ma stiamo togliendo libertà agli agricoltori di produrre, innovare, commercializzare.

Su quali basi il «club» decide chi può coltivare una data varietà?

A deciderlo è l’azienda che detiene il brevetto sul prodotto e decide a chi darlo in base a come vuole sviluppare il mercato in termini di quantità e di areale di coltivazione. La cosa incredibile è che chi coltiva la varietà detenuta dal club è obbligato a restituire il frutto alla casa madre. In questo modo l’agricoltore diventa un prestatore d’opera e perde completamente la possibilità di scelta, non è più libero di decidere come coltivare, a chi vendere. Nel libro racconto dei club intorno a singole varietà di mele o di kiwi, ma se ne stanno sviluppando tanti altri e la tendenza è di averne sempre di più. Il coltivatore che sta dentro il club è abbastanza contento, il problema è che i tantissimi che restano fuori di fatto non hanno accesso al mercato.

Tutto ciò porta a un impoverimento della biodiversità, mentre l’Unione europea ci chiede di conservarla.

Certo, concentrare il mercato in pochissime varietà esteticamente perfette e vincolate dal brevetto, esclude tutte le altre che vengono coltivate e vendute sempre meno con ripercussioni sulla biodiversità del pianeta. Il tutto mentre l’Ue con la Strategia biodiversità 2030 cerca di invertire la rotta. Ma gli obiettivi devono essere più ambiziosi, perché a contribuire alla perdita di biodiversità c’è anche la produzione di cibo a basso costo e l’agricoltura intensiva.

Ci sono agricoltori che si oppongono a queste regole?

Per fortuna sì. Racconto la vicenda degli agricoltori pugliesi che stanno lottando per avere la libertà di coltivare delle varietà di uva senza semi, molto apprezzate dal mercato, il cui brevetto però è in mano ai breeder. La questione è ora nelle aule dei tribunali. Quello che sta succedendo in Puglia è uguale anche in Spagna e in tante altre parti del mondo.

Un capitolo lo ha chiamato «Americanizzare l’agricoltura esportando gli ibridi». Cosa intende?

In quel capitolo spiego la tendenza messa in atto dagli Usa, sul finire della Seconda guerra mondiale, di esportare il modello agricolo nazionale in tutto il mondo. Questo modello diventa un ulteriore strumento di affermazione dell’egemonia americana contro il comunismo e la fame. Alla base della «ricetta statunitense» ovviamente c’è l’uso di semi ibridi e di fertilizzanti.

Non tutta la biodiversità è persa visto che gran parte delle sementi delle piante agricole presenti sulla Terra sono rinchiuse in un caveau alle isole Svalbard (Norvegia), nel circolo popolare artico. Possiamo quindi dormire sonni tranquilli?

Lì non ci sono tutte, ma molte: oltre un milione di sementi provenienti da tutto il mondo. È una specie di backup delle sementi. Ma è bene ricordare che queste restano di proprietà dei Paesi che le hanno depositate. I semi di patate del Perù o quelli della Corea del Sud, per fare degli esempi, rimangono di proprietà di questi stati. Possono essere ritirate dai legittimi proprietari solo in caso di perdita di quelli originali. Fino a oggi, a 15 anni dall’apertura del sito, è accaduto una sola volta con la restituzione dei semi al Centro internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride di Aleppo, Siria, che ha dovuto abbandonare nel 2015 la propria banca genetica a causa della guerra civile per trasferirsi in Marocco e Libano. Cosa che invece non è accaduta per le banche genetiche danneggiate in Afganistan o in Iraq. Ma ci sono banche delle sementi anche in altre parti del mondo, più antiche di quella delle Svalbard.

Infatti, lei racconta quella italiana di Bari, ma con un pizzico di amarezza…

Quella di Bari è una delle più antiche al mondo che però a differenza di quella delle isole Svalbard è tenuta in vita solo grazie al lavoro di ricercatori appassionati mentre le istituzioni sembrano disinteressate alla conservazione di quel patrimonio genetico. Un patrimonio fatto di 56 mila campioni di semi mantenuto in vita con un budget annuo di 30 mila euro.

Lei scrive anche dei semi che non ce l’hanno fatta. Quali sono?

In pratica sono quelli depositati nel lungo tunnel delle isole Svalbard, quelli che ora non servono più all’agricoltura intensiva perché i loro frutti non hanno più mercato. Quello che si sta conservando non è un singolo seme, bensì le migliaia di informazioni genetiche al suo interno. L’insieme di quei geni, i possibili incroci tra varietà, rappresentano un tesoro dal valore inestimabile. E stiamo rischiando di perderlo per sempre. Un fatto grave, perché la biodiversità è una delle risposte chiave alla lotta al cambiamento climatico.

I consumatori non possono però chiamarsi fuori, in qualche modo con le loro scelte al supermercato sono compartecipi della diminuzione della biodiversità.

Il consumatore ha un ruolo quando può esercitarlo, cioè quando ha un potere di acquisto che gli permette di scegliere tra questo o quel prodotto. Il punto è fare in modo che sia un cittadino informato sapendo cosa sta acquistando. Occorre perciò fare divulgazione e informazione corretta. Ma c’è bisogno soprattutto di rimettere i soldi nelle tasche dei cittadini, che solo così potranno veramente scegliere. È vera scelta quella basata sul prezzo più basso?