Economia

La Bce dà un taglietto ai tassi. E Lagarde non ne vuole altri

La Bce dà un taglietto ai tassi. E Lagarde non ne vuole altriLa Presidente della Bce Christine Lagarde durante la conferenza stampa – foto Ansa

Primo calo dal 2019, una grande manovra di redistribuzione della ricchezza verso l’alto. La Banca centrale europea lima di un quarto di punto il costo del denaro. Ma resta in trincea

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 giugno 2024

Dopo cinque anni nei quali il tasso di rifinanziamento delle banche è passato da zero al 4,5%, il Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea ha deciso di tagliare di un quarto di punto il costo del denaro. L’annuncio è stato dato nel corso della conferenza stampa svoltasi ieri a Francoforte, come da calendario dell’istituto. Stesso taglio anche per il tasso sui depositi presso la Bce e per quello sui cosiddetti «prestiti marginali» (per le banche in sofferenza), che scendono rispettivamente al 3,75% e al 4,50%, nonostante «le pressioni ancora forti sui prezzi», come dimostrerebbe, da ultimo, il dato di maggio sull’inflazione nella zona euro: +2,6%, in aumento rispetto al +2,4% di aprile. «Era ora», ha esclamato il ministro delle finanze Giorgetti, mentre il vicepremier Tajani ha auspicato che a stretto giro ce ne sia un altro, di pari entità.

LA PRESIDENTE della Bce Christine Lagarde, nel suo intervento se l’è presa con «l’elevata crescita delle retribuzioni», in particolare «quelle tedesche». Il motivo per il quale «l’inflazione resterà verosimilmente a livelli più alti del target per gran parte del 2025» e bisognerà tenere ancora una condotta prudente. Le prossime decisioni, insomma, verranno prese «meeting dopo meeting» e la discesa dei tassi, se ci sarà, seguirà quello che è stato definito «un percorso accidentato».

Significa che i cittadini europei spendono di più? Macché, i consumi calano. Come in Italia, dove ad aprile sono crollati del 4,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. O paghi la rata del mutuo (aumentata dal 40 al 60% rispetto al 2022) o ti concedi qualche spesa. Il guaio è che in Italia non sono diminuiti solo i consumi superflui, quelli che l’economista Thorstein Veblen avrebbe chiamato «ostentativi» (ed era una lode), ma anche quelli per mangiare (-4%). E ciò spiega il perché della più bassa inflazione italiana rispetto al resto dell’eurozona (+0,8% a maggio, contro il 2,6%).

OPERAI, PENSIONATI e famiglie a basso reddito sempre più in difficoltà, mentre le banche continuano a macinare profitti. La politica monetaria della Bce si è rivelata in questi anni una gigantesca manovra di redistribuzione della ricchezza verso l’alto. Uno strumento della «lotta di classe alla rovescia». Tassi alti hanno significato interessi più alti sui mutui, non compensati dalla remunerazione dei risparmi. Non solo. Le grandi banche commerciali hanno beneficiato anche degli alti tassi sui depositi presso la stessa Bce. Secondo uno studio della società svizzera Ubs, l’utile netto delle banche europee nel 2023 è stato di 380 miliardi di euro (quasi 2 punti di pil europeo). Il cosiddetto «margine di interesse», dato dalla differenza tra gli interessi riconosciuti sui conti correnti dei cittadini (una media dello 0,2%) e quelli che le banche prendono dalla Bce (4%).

PROFITTI DA FAVOLA. Che in Italia hanno fatto, per il 2023, la strabiliante cifra di 43 miliardi di euro. Quei soldi che la Meloni aveva promesso di tassare, salvo poi rimangiarsi la parola e trasformare l’annunciata misura riparatrice per il popolo nell’ennesimo regalo agli istituti di credito: tenetevi i soldi e rimpinguateci il vostro capitale. Insomma, più soldi a disposizione per mitigare l’unico danno che i tassi alti possono arrecare alle banche: ridurre il valore delle proprie obbligazioni. Valore che però può aumentare, se aumenta il numero di coloro che le domandano. Anche se il domandante è la stessa banca che li ha emessi. In gergo si chiama share buyback, il riacquisto delle proprie azioni o obbligazioni per farne salire il prezzo. Quello che in effetti è accaduto, e che spiega l’anno d’oro della borsa italiana.

Intanto, crescono povertà e disuguaglianze (in Italia siamo a 5,7 milioni di poveri assoluti). Se sale il costo delle materie prime, le imprese hanno il potere di alzare i prezzi, tenendo al riparo (o aumentando) i propri profitti. I ceti popolari, invece, pagano l’inflazione prima con la perdita di potere d’acquisto, poi a causa delle manovre delle banche centrali per farla scendere, senza poter contare su adeguamenti proporzionali dei salari, stante – nella maggior parte dei casi – la loro scarsa forza contrattuale.

È CIÒ CHE È ACCADUTO, che sta accadendo. Un’inflazione da costi e speculativa che si è rapidamente trasformata in inflazione da profitti, combattuta dalle banche centrali nell’interesse dell’1% della popolazione. Che poi, se rispetto a due anni fa i prezzi sono scesi è perché si è stabilizzato il mercato dei beni energetici, la cui dinamica non dipende certo dalle decisioni del board di Francoforte. Per il popolo la soluzione sarebbe stata, e sarebbe, una politica di controllo dei prezzi, unita alla tassazione degli extra-profitti. Ma questa si chiama politica economica e sociale. Che non sempre va d’accordo con la presunta «indipendenza» delle banche centrali.

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