La battaglia contro la «cultura barbuta» dei cari compagni
Profondo rosso Una convivenza complessa tra i sessi nelle sezioni del Pci in Sicilia con una presenza femminile che si faceva largo. Ne parlano le scrittrici Maria Attanasio e Vera Pegna nei loro libri, tra militanza e autobiografia
Profondo rosso Una convivenza complessa tra i sessi nelle sezioni del Pci in Sicilia con una presenza femminile che si faceva largo. Ne parlano le scrittrici Maria Attanasio e Vera Pegna nei loro libri, tra militanza e autobiografia
Come debellare la «cultura barbuta» dei nostri compagni?, si chiedeva Maria Giudice, all’inizio del Novecento. Maria Giudice, una delle prime sindacaliste italiane, al Congresso di Livorno c’era, anche se poi scelse un’altra strada. Ma bisogna dire che le donne del partito comunista, in seguito, hanno ripreso proprio quel suo vecchio interrogativo. A fasi alterne e in modi diversi, però non l’hanno accantonato e talvolta, anzi, l’hanno fatto diventare un nodo politico. Da sciogliere, se necessario, anche tramite un conflitto. Le tracce di questo scontro si possono trovare facilmente negli archivi storici, che raccolgono l’immenso materiale prodotto dalle commissioni e dalle sezioni femminili del Pci. Ma sono soprattutto le testimonianze, le memorie, i racconti di vita, che ci restituiscono il senso profondo di quella battaglia e la passione con cui le donne l’hanno vissuta, dentro il partito e fuori. Vale la pena leggerli, questi racconti, perché trasmettono un entusiasmo contagioso (positivamente contagioso, al contrario del Covid). E di questi tempi l’entusiasmo è sentimento raro, da tenere ben stretto quando capita d’incontrarlo. Non succede spesso, a dire il vero.
Soprattutto quando l’industria editoriale, in occasione di anniversari o ricorrenze, sforna un libro dopo l’altro, senza troppo sottilizzare. Ma per fortuna ci sono le vecchie edizioni, i vecchi cataloghi. Basta avere un po’ di pazienza per scoprire un racconto capace di emozionarti e di farti sentire la voce delle donne che cercano, attraverso la politica, di uscire da un’antica zona d’ombra. «Compagne incarnate», le chiama Concetta La Ferla, protagonista assoluta di un prezioso libro di Maria Attanasio (Di Concetta e le sue donne, Sellerio 2000).
Un libro che è al tempo stesso autobiografia e biografia, dialogo costante con l’altra-da-sé, rievocazione di un’epoca e di una storia. La memoria qui si fa grande scrittura e, partendo da un frammento della realtà, ricostruisce un mondo intero: il mondo della militanza comunista, narrato da un punto di vista femminile. Da donne che confessano di sentirsi «accubare», soffocare, in questo tempo attuale senza politica: «come se ci mancasse l’aria». Per la verità Maria Attanasio non vorrebbe scriverlo, questo libro. È Concetta La Ferla, «tardocapopolo e protofemminista», a convincerla. «I libri e le parole servono come le piccole lumiere che fanno un po’ di luce quand’è scuro», le dice.
I libri, ragiona Concetta, non sono la luce, ma aiutano a ricordare le vittorie (e i dolori) del passato alle nuove generazioni, che «camminano e non sanno» e inoltre mangiano con «il piatto impiattato», ossia già pronto in tavola. Maria Attanasio l’ascolta, ma poi esita, tentenna, riesce perfino a perdere gli appunti. E’ troppo forte il coinvolgimento: c’è anche lei, c’è il suo passato, c’è la sua militanza dentro la biografia di Concetta.
Infine si chiede: ma è proprio necessario «fingere un’ipocrita oggettività»? La memoria non è tanto più forte quanto più condivisa? Emotivamente condivisa. Ed ecco nascere questo libro che, proprio come una piccola lumiera, getta un fascio di luce sopra un episodio che certi storici considererebbero senz’altro minore. Ma minore non è, anche se si svolge nella provincia siciliana, a Caltagirone, e ha al suo centro una battaglia che può sembrare di scarsa rilevanza: l’apertura di una sezione femminile nel Pci locale. Un fatto, si direbbe, organizzativo. Nulla di più. E invece all’epoca, verso la fine degli anni Sessanta, provocò una specie di terremoto nel partito e una reazione maschile scomposta e vendicativa. In un certo senso, fu la dimostrazione che Maria Giudice, in quel lontano 1921, aveva visto giusto: una cultura barbuta non può che produrre una politica barbuta. Eppure Concetta non è certo un’infiltrata. E’ anzi di schietta discendenza comunista: «Quando mio padre mi fece – era nel trenta – di sicuro quella notte pensava alla bandiera rossa. E nacqui io». In più, ha al suo attivo un impegno costante nel partito: ha organizzato la battaglia per l’acqua (e l’ha vinta), quella per la luce elettrica e per la fognatura.
Mobilitando, ogni volta, le donne. Ed è proprio questa sua esperienza a farle venire in mente l’idea di una sezione «delle» donne, dove ritrovarsi senza suscitare troppe chiacchiere nel vicinato. Ma a questo punto scoppia l’inferno. I compagni, racconta Concetta, ci dicevano che «per la nostra superbia di donne volevamo rovinare un partito: la sezione femminile, maimai; doveva essere bloccata sul nascere. E successe un parapiglio di riunioni, di attacchi e contrattacchi». Concetta ormai, per i suoi stessi compagni, è la pazza. O la buttana (come le sue seguaci, che erano molte e altrettanto determinate).
Alla fine, malgrado l’opposizione dei dirigenti locali, la sezione si fa. Anche se dura soltanto due anni e se prende il nome di «Lenin» e non di «Rosa Luxemburg», come volevano le donne. Un punto, quest’ultimo, molto significativo, perché ci dice cosa era davvero in gioco in quella battaglia: un potere simbolico. E Concetta ne è assolutamente consapevole. «Quando mi toccavano l’autonomia delle donne», confessa, «io perdevo il controllo mentale della situazione. Si arrivava alle mani».
Anche Miriam Mafai, nella prefazione a un altro delizioso libretto del 1992 (Vera Pegna, Tempo di lupi e di comunisti, La Luna edizioni), sottolinea la capacità delle donne di cogliere, nei loro racconti, «alcuni particolari che assumono una forza quasi simbolica». In Tempo di lupi e di comunisti, Vera Pegna ripercorre la sua esperienza di giovane militante mandata a costruire il partito a Caccamo: un paese di mafia, «dove non ci vuole andare nessuno». Un’autobiografia che fa riflettere, ma anche sorridere. Indimenticabile il vecchio segretario di sezione che accoglie la giovane indossando una fascia tricolore con la scritta «Il segretario» ricamata in lettere d’oro. Indimenticabili le reazioni perplesse dei compagni, di fronte alla giovane donna (per di più forestiera) che dovrebbe dirigerli. Ma anche se Vera non riesce nel suo intento e dunque la sua, come ricorda Miriam Mafai, «non è una storia a lieto fine», però un risultato l’ottiene. Perché a Caccamo c’era l’abitudine, durante le sedute del consiglio comunale, di far sedere in una grande poltrona accanto al sindaco il capo-mafia locale. E Vera dà battaglia e riesce a togliergli la poltrona.
Un risultato, per l’appunto, di grande forza simbolica. Come il cambiamento innescato da Concetta La Ferla e dalla sua «eresia» politica. «La nostra battaglia», riconosce a un certo punto la proto-femminista di Caltagirone, «non ha portato il socialismo, però ha cambiato il modo di pensare, e senza modo di pensare non c’è vittoria rivoluzionaria». Non per niente, aggiunge poi con orgoglio, il nostro è stato «uno sperimento nazionale»!
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