L’estrattivismo avanza. E uccide: in America latina è strage di attivisti
Ambiente Il rapporto dell'osservatorio Global Witness: dei 212 ambientalisti uccisi nel 2019, due terzi vivevano nei paesi latinoamericani. Nemmeno il Covid ha frenato lo sfruttamento: agribusiness e attività minerarie etichettate come «essenziali»
Ambiente Il rapporto dell'osservatorio Global Witness: dei 212 ambientalisti uccisi nel 2019, due terzi vivevano nei paesi latinoamericani. Nemmeno il Covid ha frenato lo sfruttamento: agribusiness e attività minerarie etichettate come «essenziali»
È ancora l’America latina la regione più pericolosa per i difensori dell’ambiente. Se, in base all’ultimo rapporto dell’osservatorio Global Witness, sono almeno 212 gli attivisti per il diritto alla terra e la tutela della natura assassinati nel mondo nel 2019, oltre due terzi degli omicidi sono avvenuti nel subcontinente latinoamericano (33 nella sola Amazzonia).
«In un momento in cui abbiamo particolarmente bisogno di proteggere il pianeta dalle attività industriali devastanti e dalle emissioni di gas a effetto serra, gli omicidi dei difensori della terra non sono mai stati così numerosi» dall’inizio del conteggio nel 2012, ha dichiarato l’ong britannica, evidenziando come il numero degli attivisti assassinati sia in realtà sicuramente più alto dei dati ufficiali.
IL PRIMO GRADINO del non invidiabile podio spetta alla Colombia, dove nel 2019 sono stati documentati 64 omicidi, di cui la metà ai danni dei popoli indigeni. Al secondo posto le Filippine, con 46 leader assassinati, seguite però da altri tre paesi latinoamericani: il Brasile con 24, il Messico con 18 e l’Honduras con 14 (il paese più pericoloso per numero di abitanti).
È IL SETTORE MINERARIO quello in cui si è registrato il maggior numero di omicidi (50 attivisti uccisi nel 2019), seguito dall’agribusiness (34), a conferma della letalità di quel modello – comunemente definito estrattivista –, centrato sull’accaparramento da parte di grandi interessi privati nazionali e stranieri, ma anche dello Stato, delle risorse presenti sui territori, contro gli interessi delle comunità locali e degli ecosistemi in cui esse vivono (che si tratti di industria degli idrocarburi e dei metalli preziosi, di monocolture di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto o delle grandi infrastrutture necessarie all’esportazione).
Un modello che neppure la pandemia è riuscita a frenare e che anzi, malgrado la quarantena e forse anche grazie a essa, ha continuato ad avanzare su tutto il subcontinente con la complicità o l’attiva collaborazione dei governi, tanto conservatori quanto progressisti.
Il caso più eclatante è il Brasile, dove il ministro dell’ambiente Ricardo Salles, durante una riunione ministeriale, non ha esitato a invitare l’esecutivo – approfittando dell’esclusiva attenzione rivolta dalla stampa alla pandemia – ad approvare in tutta fretta «riforme di deregolamentazione e di semplificazione» in area ambientale.
Ma anche senza arrivare a tale livello di spudoratezza, per tutti i governi l’estrattivismo costituisce una fondamentale leva per la riattivazione dell’economia – quali che siano i costi sociali, sanitari e ambientali che provocherà – di fronte al rischio della peggiore recessione della storia dell’America latina. Non a caso, in mezzo a dichiarazioni dello stato di emergenza e imposizioni del lockdown, le attività minerarie, l’agribusiness e le grandi opere di infrastruttura, pur costituendo un formidabile vettore di contagi, sono state considerate «attività essenziali» praticamente ovunque, dall’Argentina al Perù, dal Brasile (dove si è persino registrato un aumento delle esportazioni di carne e di soia) all’Ecuador fino al Cile.
E MENTRE LE ATTIVITÀ estrattiviste hanno esposto innumerevoli lavoratori al contagio, tanto per la negligenza delle imprese quanto per l’assenza di controlli statali (eclatante il caso degli stabilimenti di carne in Brasile o delle miniere in Cile), nessun freno è stato posto al loro catastrofico impatto ambientale, particolarmente evidente nella regione amazzonica: circa 83mila ettari di foresta spazzati via in Brasile solo a maggio e 75mila cancellati ad aprile in Colombia. A cui bisogna aggiungere l’aumento dei roghi nell’Amazzonia boliviana iniziati prima del previsto, gli sversamenti petroliferi nella foresta ecuadoriana (i più gravi negli ultimi 15 anni) e l’autorizzazione all’estrazione di oro, diamanti e altri minerali strategici nella regione amazzonica del Venezuela.
La dimostrazione, commenta il sociologo venezuelano Emiliano Terán Mantovani, dell’«abissale cecità delle dirigenze politiche», decise a «premere l’acceleratore della locomotiva della devastazione».
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