Kwame Brathwaite, immagini in movimento
Kwame Brathwaite, «Self-portrait, Harlem», 1964 c. (Courtesy the Artist & Philip Martin Gallery, Los Angeles)
Alias

Kwame Brathwaite, immagini in movimento

Fotografia Il libro «Kwame Brathwaite. Black is beautiful», dedicato al fotografo e attivista di Harlem
Pubblicato più di un anno faEdizione del 28 gennaio 2023

Con la sua vecchia insegna rossa al neon, l’Apollo Theater è sempre al 253 W 125th Street, nel quartiere di Harlem, tra un «game store» e la facciata rimodernata del negozio di un brand multinazionale di moda. È forse il più noto club musicale afroamericano di tutti i tempi.

Sul suo palco, il 24 ottobre 1962, James Brown cantava con la sua inconfondibile voce Lost Someone mentre le tantissime e i tantissimi fan si lanciavano in grida di plauso. Live at the Apollo è proprio il titolo dell’album dal vivo uscito nel ’63, il primo registrato dal «re del soul» nell’iconico music hall, seguito da altri tre tra il 1968 e il 1995.

Per Kwame Brathwaite (Brooklyn, New York 1938, vive e lavora a New York) l’Apollo Theater era un po’ casa e tra le sue fotografie c’è anche quella del cartellone di quel mitico concerto del ’62 dove la silhouette di James Brown sembra dedicare il suo sorriso al bimbo che sta in piedi, sul marciapiede, con il suo berretto di lana con il pon pon.

Il jazz è senza dubbio il sottofondo musicale della giovinezza di questo straordinario fotografo, ma non solo. Non ancora ventenne frequenta il leggendario Club 845 nel South Bronx dove l’African Jazz-Art- Society & Studios (AJASS), di cui lui stesso è co-fondatore nel ’56 insieme al fratello Elombe Brath, cominciava la sua attività organizzando concerti jazz nei pomeriggi domenicali e, allo stesso tempo, promuovendo la cultura Black anticipando e poi inserendosi a pieno titolo nella corrente artistica BAM-Black Arts Movement.

Conosciuto anche come Black Aesthetics Movement, questo movimento ha origine ad Harlem nel 1965 intorno alla figura del poeta Amiri Baraka (LeRoi Jones), sostenuto da intellettuali tra cui Audre Lorde, Ntozake Shange, James Baldwin, Gil Scott-Heron, Thelonious Monk, Marguerite «Maya» Johnson, Gwendolyn Brooks, Nikki Giovanni (Yolande Cornelia «Nikki» Giovanni) e Lorraine Hansberry, prima drammaturga afro-americana ad andare a Broadway con A Raisin in the Sun, la commedia che s’ispira alle vicende autobiografiche della battaglia legale contro le leggi di segregazione razziale di Chicago, portate avanti dalla sua famiglia.

Figlio di emigrati dell’isola caraibica di Barbados, Kwame Brathwaite e i suoi fratelli Elombe e John crescono ad Harlem, dove il padre aveva messo su una sartoria e delle lavanderie a secco. D’estate i genitori li portavano a fare delle gite nel villaggio di Sag Harbor a Long Island e vicino a Cape Cod, nell’isola di Martha’s Vineyard: momenti trascorsi all’insegna dell’arte e della creatività, imprinting decisivi nel delineare la personalità di Kwame Brathwaite.

La macchina fotografica professionale (l’Hasselblad in medio formato) la compra con i primi guadagni realizzati promuovendo concerti jazz e mostre d’arte. Brathwaite impara la tecnica da autodidatta, ma per lui non si trattava solo di raccontare il quotidiano. La memoria delle immagini dell’assassinio efferato per motivi razziali del teenager Emmett Till a Drew, Mississippi il 28 agosto 1955, è un punto di svolta.

Lo racconta lo stesso fotografo nella prefazione del bel volume monografico Kwame Brathwaite. Black Is Beautiful, curato da Tanisha C. Ford (contiene anche un testo di Deborah Willis), pubblicato da Aperture nel 2019. Il «custode delle immagini» come viene chiamato da più di una persona, memore anche della lezione di Marcus Garvey, diventa da subito artista-attivista intrecciando il linguaggio fotografico con la musica e, successivamente, la moda quando crea l’agenzia di modelle nere Grandassa Models (il nome deriva dalla definizione da «Grandassaland» usata dall’attivista Carlos Alexander Cooks per descrivere il continente africano) e organizza sfilate di moda con cui veicola nuovi paradigmi estetici, nati da un autentico rapporto tra arte e politica.

All’insegna dello slogan «Black Is Beautiful» (titolo anche alla mostra, prima grande retrospettiva dedicata al lavoro di Kwame Brathwaite, recentemente conclusasi al New-York Historical Society Museum e presentata in anteprima, nel 2019, allo Skirball Cultural Center di Los Angeles), in un periodo storico in cui la segregazione razziale ancora ovunque negli Stati Uniti d’America, l’autore con le sue fotografie in bianco e nero e a colori ha celebrato l’identità nera attraverso la bellezza.

Una formula che include il senso di appartenenza nell’orgoglio del mostrare le radici africane. Fin dai primissimi anni Sessanta le modelle della sua agenzia sfilano al Renaissance Ballroom & Casino al Rockland Palace, nel cortile della Public School di Harlem o durante la parata per il Marcus Garvey Day (17 agosto), sfoggiando la capigliatura afro, icona del movimento di protesta (tornata in auge con la mobilitazione di Black Lives Matter) e gli abiti a tubino, gonne a palloncino e maniche con volant tipiche della moda dell’epoca ma disegnati da stiliste come Elaine Baskin Bey, Khosi «DeeDee» Little o Lily Barnett e confezionati con i tessuti «wax printed» provenienti dalle coste occidentali dell’Africa.

Una vera rivoluzione al ritmo del calipso, del soul, del blues mescolato al jazz, ai canti gospel, al groovy, al reggae, al funky, alla disco music. Molto trendy anche gli accessori e i gioielli «tribali» come la cuffia di perline bianche e rosse disegnata da Carolee Prince che indossa Sikolo Brathwaite, la mannequin sposata dal fotografo. «Quando mi guardo indietro,» – scrive Kwame Brathwaite – «sono tantissimi i momenti memorabili: a cavalcioni sul retro di un camion mentre fotografo Muhammad Alì che si allena di notte, mentre parlo di spiritualità e libertà con Bob Marley nella sua casa di Hope Road a Kingston, in Giamaica; al seguito dei Jackson 5 in Africa, quando fotografo Michael Jackson dopo la visita all’Île de Gorée in Senegal o quando ho documentato la celebrazione della liberazione della Namibia. Ma una delle esperienze a cui tengo di più è la partecipazione all’insediamento di Nelson Mandela che è la rappresentazione di anni di lavoro che finalmente hanno dato frutto. Sembrava quasi che il nostro lavoro si fosse concluso… ma non è stato così. L’oppressione esiste ancora oggi e dobbiamo continuare a combattere, a fare pressione finché non saremo tutti liberi».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento