«Io sono un nero del Mississippi. Io sono un americano nero. Giuro di non essere mai passivo, patriottico o grato di fronte agli abusi di questa America. Giuro di prendere eternamente in considerazione la possibilità che non ci saranno mai libertà, pace e giustizia per tutti a meno che non si ammetta che l’America, come il Mississippi, non è pulita. Né grande. Né innocente».

Kiese Laymon rifugge i cliché dello scrittore «impegnato», propenso a tradurre nel linguaggio esplicito della politica ogni emozione e sensibilità. Nei suoi testi è più facile imbattersi nel vocabolario dell’amore, dei sentimenti, nelle parole che scaturiscono dai corpi, nelle recriminazioni che riguardano se stessi prima ancora che il mondo circostante.

Anche per questo i brevi saggi riuniti in Come uccidersi e uccidere in America (Black Coffee, pp. 170, euro 18, traduzione di Leonardo Taiuti) si segnalano, come le frasi citate, tratte da «A cosa giuro fedeltà», amara riflessione intorno al tema della bandiera, per la loro estrema lucidità e determinazione. Pubblicato una prima volta negli Stati Uniti oltre dieci anni fa, il libro è stato riacquisito dallo stesso autore, dopo un complesso e costoso confronto con il proprio ex agente, prima di tornare in una nuova edizione (la prima nel nostro Paese) con l’aggiunta di alcuni interventi che fotografano la fase più acuta della pandemia durante la presidenza Trump, la lunga serie di omicidi di neri da parte delle forze dell’ordine, su tutti quello di George Floyd.

Testi che lo scrittore, nato a Jackson, Mississippi, nel 1974 e che ha insegnato nell’ateneo locale e nello Stato di New York, intreccia a quelli dedicati allo sviluppo del rap nel Sud del Paese, alla contrastata eredità di Faulkner, all’onnipresenza delle violenze dei «bianchi peggiori» nella sua esperienza di giovane uomo, ma anche al legame con le donne che lo hanno cresciuto, la madre e la nonna, già al centro del suo memoir Il giusto peso (Black Coffee, 2019).

Lo scrittore Kiese Laymon

La raccolta si apre con il crescere dei numeri della pandemia e dei neri morti per mano della polizia. Emerge però anche un convitato di pietra, Trump, che nulla ha fatto contro il Covid o per fermare gli omicidi razzisti. A due anni dalla sua sconfitta l’America non è entrata ancora nel «dopo-Trump»?
Questa è un’ottima domanda. Possiamo probabilmente parlare di «un prima» e di «un dopo», ma penso di aver scritto queste pagine in preda ad una sorta di ossessione che mi portava a considerare Trump e il trumpismo come un dato di fatto, quasi un elemento anonimo della realtà del Paese. Pensandoci bene, è chiaro che il quesito di fondo riguarda invece cosa possa legare questo «prima» e «dopo» dell’America nel segno di Trump. Certo, grazie agli americani, ci sono state figure come quella dell’ex presidente, ma anche come Fannie Lou Hammer, una delle più importanti voci del movimento per i diritti civili che era nata nella contea di Montgomery, in Mississippi. Entrambe queste vicende biografiche meritano tutta la nostra attenzione perché ci dicono del potenziale di pericolo estremo e dell’altrettanto radicale capacità di amore che sappiamo esprimere.

Questo libro descrive «una migrazione in senso antiorario» che procede a ritroso dal Mississippi, via New York e il Midwest, per fare poi ritorno dove lei è nato. Cosa significa essere di nuovo in Mississippi?
Sono tornato in Mississippi nel momento più adatto alla mia crescita, ma allo stesso tempo me ne sono andato nuovamente, purtroppo, in una fase decisiva. Il Mississippi è la mia casa fisica e artistica. È anche un posto molto difficile in cui vivere per corpi indisciplinati e immaginazioni indisciplinate come la mia. Per questo penso di poter dire che ne ho bisogno e sono terrorizzato allo stesso tempo da ciò che conosco del posto in cui sono nato e dal legame che nutro nei suoi confronti.

La redazione consiglia:
Negroland, l’identità dell’America malgrado i bianchi

Eppure, e non solo se si guarda al passato, da quelle parti le cose sembrano molto difficili per i neri…
Senza dubbio. I bianchi del Mississippi continuano a sprecare ogni opportunità per creare qualcosa di straordinario per le vite di tutti noi. Abbiamo dato loro tutte le ragioni per smettere di impegnarsi, come hanno fatto fino ad ora, per la nostra morte e la nostra distruzione, ma sembrano essere quasi dipendenti da tutto ciò. Dopo la paura che ho provato così a lungo da ragazzo, se ci ragiono da adulto mi rendo conto che siamo una sorta di «danno collaterale» nel loro viaggio verso la conquista dell’amore per se stessi. A questo punto cosa posso dire? Vorrei solo che ripagassero chi ha sofferto a causa loro e si prendessero cura del proprio dolore spirituale che evidentemente è senza fine.

A fare da filo conduttore tra i vari saggi, c’è una frase, che lei ripete come «un mantra», si direbbe più a se stesso che ai lettori, di fronte a situazioni terribili: «Potrebbe andare molto, molto peggio». Cosa significa?
Intendo quelle parole in senso letterale e in modo del tutto ironico. È una frase a cui mi ero abituato e che andavo ripetendo durante la presidenza Trump, perché pensavo potesse proteggere gli Stati Uniti dalla nostra negligenza. In alcuni casi, nel libro, può acquisire anche il senso di voler convincere le persone che ho fatto soffrire che sarebbe potuto andare tutto molto peggio, invece di considerare quanto male ho procurato. Al contrario, negli Stati Uniti tutto sarebbe davvero molto peggio se non fosse per piccoli gruppi di persone impegnate nella lotta per la libertà. In sintesi: quelle parole nascondono un vero paradosso.

In riferimento alla campagna, sostenuta da John Grisham e Morgan Freeman, che ha portato alla rimozione dei simboli confederati dalla bandiera del Mississippi, lei scrive che non basta eliminare vessilli e statue dei razzisti, per cambiare la realtà dei neri.
I simboli sono importanti, certo, ma quel che è mancato in questa lunga battaglia è il giusto spazio ai bisogni dei neri del Mississippi che chiedono prima di tutto uguale accesso a scelte sane, seconde possibilità e amore buono. Quelle statue e quelle bandire commemorano la nostra morte e tutte le sofferenze che abbiamo patito per mano di vicini che hanno tradito. Abbatterle e cancellarle non è che il primo passo.

A trent’anni dalla rivolta di Los Angeles (aprile/maggio 1992), vicenda che segnò anche l’immaginario dei neri, dal rap a Spike Lee che utilizzò le immagini del pestaggio di Rodney King per il film su Malcolm X, quanto sono cambiate le cose?
Noi lottiamo. Quindi le cose cambiano. Ogni giorno un po’. Loro si oppongono. Quindi il cambiamento non è indolore come a molti di noi piace pensare. Stiamo soffrendo ma stiamo ancora combattendo. Questa è una lotta che continuerà per sempre. Personalmente credo solo che tra le nostre richieste dobbiamo mettere in primo piano la libertà, l’amore e bisogni dei più piccoli tra noi.