Khaled el-Qaisi è finalmente libero. Lo studente italo-palestinese è tornato a Roma il 9 dicembre scorso dopo un mese di detenzione (senza accuse) in un carcere israeliano e altri due mesi bloccato a Betlemme per la confisca del passaporto.

Partiamo dalla fine. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, lei si trovava a Betlemme mentre Israele lanciava l’offensiva militare contro Gaza. Intanto in Cisgiordania si assiste a un’escalation di violenza contro le comunità palestinesi sia da parte dell’esercito che dei coloni. E ad arresti di massa.

La situazione è tesa: dal 7 ottobre è in corso una campagna di arresti in tutta la Cisgiordania. Betlemme è la seconda città per numero di di detenuti dopo Hebron. Le incursioni sono giornaliere, a tutte le ore, di notte, la mattina, nel tardo pomeriggio. Un buon numero di arresti sono stati fatti ai posti di blocco, basta un precedente o un qualche tipo di segnalazione e finisci in detenzione amministrativa. Ormai gran parte degli arrestati non passa più per la fase degli interrogatori, si va subito in amministrativo. È palese il tentativo di aumentare il numero di di detenuti, sia per uno scambio futuro sia perché gli arresti preventivi spingono a non mobilitarsi.

La redazione consiglia:
«Ostaggi per ostaggi». Le carceri scoppiano

Torniamo al 31 agosto. Dopo l’arresto improvviso al valico di Allenby, è stato portato a Petah Tikva e posto sotto interrogatorio senza poter parlare con il suo avvocato.

Per le prime due settimane non ho avuto alcun tipo di contatto con l’avvocato anche se il divieto iniziale era di 48 ore. Appena sono stato arrestato alla frontiera sono stato portato in un ufficio della polizia nella parte israeliana del valico. Mi hanno presentato una serie di documenti che presumo fossero l’ordine di arresto e spiegazioni sui miei diritti, tutto in ebraico. Non ho firmato nulla, non ne conoscevo il contenuto. Ho rifiutato di rispondere in assenza dell’avvocato. Sono stato trasferito a Petah Tikva, anche se i primi giorni non avevo capito di preciso in quale struttura mi trovassi. Nel percorso ho provato a seguire i cartelli stradali. Ho capito che non mi trovavo nel centro interrogatori di Jalamah, né al Moscobiyeh. Sono stato messo in una cella nella sezione provvisoria, una sorta di sezione «di accoglienza», mi è stata portata una divisa marrone, quella per il detenuto che chiamano «di sicurezza». La sera stessa sono cominciati gli interrogatori che per per il primo periodo sono portati avanti dallo Shabak (Shin Bet). Il giorno successivo c’è stata una seduta del tribunale, arresto prorogato di una settimana. Solitamente si finisce davanti un tribunale militare in Cisgiordania, ma io ero in un tribunale civile, penso per la mia cittadinanza italiana. Nei primi giorni ho rifiutato qualsiasi interazione negli interrogatori perché non potevo vedere l’avvocato. Quattro giorni dopo l’arresto, mi è stato comunicato che il divieto era stato rinnovato fino alla seduta di tribunale successiva, ovvero il giovedì seguente.

La redazione consiglia:
El Qaisi, una barbarie giuridica per zittire la diaspora

Ha trascorso oltre un mese in prigione. In quali condizioni si è svolta la sua detenzione?

Dal momento in cui sono arrivato ho perso completamente la cognizione del tempo. Ho provato a orientarmi contando i pasti che dovrebbero essere tre al giorno, colazione, pranzo e cena. Sono però tutti uguali per cui non capivo se fosse giorno o notte. Sono sempre stato solo, in isolamento in una cella angusta, con la luce accesa 24 ore su 24, molto forte, era difficile prendere sonno. Non c’erano finestre. Le pareti di intonaco ruvido erano grigio scuro, come il pavimento. C’era un bagno turco intasato, ho evitato di scaricare per non allargare la cella. C’era un minuscolo lavandino per lavarsi e bere, solo acqua calda, e una grata di areazione che sparava un getto di aria gelida, collocata in un punto per cui era impossibile dormire senza stare sotto il getto. Il materasso era alto appena due-tre centimetri. Non mi lasciavano tenere niente, avevo solo un bicchiere di plastica trasparente che veniva cambiato ogni qualche giorno dietro richiesta, un asciugamano e una copertina di pile marrone fetida. Avevo anche un cucchiaio di plastica che mi cambiavano dopo giorni e giorni e molta insistenza. Gli interrogatori duravano ore, me ne rendevo perché quando tornavo in cella trovavo due pasti. Credo che in media si andasse dalle dieci alle 14 ore, anche perché i funzionari si alternavano tra un turno e l’altro. Ero seduto su una sedia fissata al pavimento, di quelle che si usano a scuola ma rialzata al centro e pendente in avanti: era impossibile rimanerci seduto per più di qualche minuto senza provare un notevole fastidio. Avevo mani e piedi legati alla sedia e un condizionatore a 40-50 centimetri di distanza che sparava aria fredda.

Poi è stato trasferito ad Ashkelon. Anche lì in isolamento?

Nel carcere di Ashkelon mi hanno mandato nella «sezione farsa» con una quarantina di detenuti. Farsa, perché poi ho appreso essere tutti collaboratori dello Shabak. È una delle tecniche utilizzate, trasferirti in una struttura detentiva con finti prigionieri per estorcerti informazioni. Sono rimasto per quattro giorni, più o meno. E poi mi hanno spostato al centro di interrogatori di Ashkelon, sempre in isolamento, in una cella identica a quella di Petah Tikva. Infine, senza preavviso, una notte sono stato portato a Betlemme. Lì sono stato caricato su una camionetta dell’esercito verso la base militare che sta sopra Beit Jala. Mi hanno trasferito su un’altra camionetta, bendato, e mi hanno portato a casa. Non per liberarmi, ho capito dopo. Hanno tentato di buttare giù la porta ma non ci sono riusciti perché è un vecchio portone di ferro. Hanno telefonato a mio fratello e intimato di presentarsi lì con la chiave minacciandolo, dicendogli che ero presente anche io e che doveva fare presto. Erano le 4 del mattino, è arrivato di corsa. I soldati hanno perquisito la casa, devastando e distrutto tutto. Poi hanno caricato sia me che lui sulla camionetta e ci hanno portato alla base militare. Io sono stato ricondotto a Petah Tikva, senza avere la più pallida idea di cosa fosse successo a mio fratello. Sono ricominciati gli interrogatori, con una nuova pressione perché mi avevano convinto che anche mio fratello fosse sotto interrogatorio. Ma almeno sono riuscito a incontrare il mio avvocato, dopo due settimane di detenzione. Era completamente all’oscuro di tutto perché il mio fascicolo era secretato. Dall’avvocato ho appreso che mio fratello era stato rilasciato poche ore dopo.

Un mese dopo è stato rilasciato. Cosa è successo?

Il termine legale per tenere qualcuno sotto interrogatorio è di 30 giorni, dopo ci sono tre possibilità. La prima è il rilascio se non sono emerse informazioni utili a formalizzare un’accusa. La seconda è la richiesta di proroga speciale alla Corte suprema che può concedere un rinnovo fino a un massimo di 90 giorni complessivi. La terza è l’invio al regime di detenzione amministrativa, se non si hanno elementi per formalizzare accuse ma si vuole prolungare l’arresto. Nel mio caso non c’erano elementi per formalizzare accuse. Da quanto mi è stato detto, avrebbero chiesto una proroga ma non è stata accordata. Restavano solo il rilascio o la detenzione amministrativa. E difatti una delle minacce dell’ultimo periodo era proprio questa: se non ci dai elementi per formalizzare le accuse, ti mandiamo in amministrativo dove puoi rimanere all’infinito, dicevano così, ti conviene avere accuse formalizzate tanto un po’ di carcere te lo devi fare comunque ed è meglio sapere quando potrai tornare a casa invece di restare appeso a rinnovi di sei mesi in sei mesi. Perché non hanno proceduto con la detenzione amministrativa? Per un motivo semplice, la cittadinanza italiana. Sarebbe stato imbarazzante condannare un cittadino straniero a un tipo di detenzione in cui non si viene sottoposti a un equo processo. Quello che dovrebbe essere un diritto diventa un privilegio, che purtroppo molti non hanno. Come i miei cugini, entrambi arrestati per farmi pressione. Uno di loro l’8 ottobre è stato condannato a cinque mesi di detenzione amministrativa senza neanche essere portato in tribunale.

La redazione consiglia:
Sui muri, per le strade, in municipio: Roma est si attiva per Khaled

Dopo il rilascio, le hanno confiscato i documenti. Non poteva tornare in Italia.

Il primo ottobre sono stato rilasciato dopo 32 giorni, con delle restrizioni: non potevo avere alcun tipo di contatto con persone coinvolte nel mio fascicolo. Ma il fascicolo è secretato, non avevo la più pallida idea di chi potesse esserci dentro. Non ho avuto contatti assolutamente con nessuno per evitare che mi arrestassero di nuovo per violazione dei termini imposti dal tribunale. L’avvocato è riuscito a strappare un’eccezione per i familiari di primo grado, mia madre, mio fratello, mia moglie e mio figlio. Un mio parente ha dovuto fare da garante e firmare una garanzia di 10mila shekel nel caso non avessi rispettato i termini. Pesava anche il divieto di espatrio, concretizzato nel trattenimento del mio passaporto. Doveva essere trattenuto fino all’8 ottobre ma il giorno prima è cambiato tutto e non siamo più riusciti a sapere dove fossero i miei documenti. Non solo non avevo il passaporto ma nemmeno la carta d’identità palestinese necessaria ad attraversare il valico di Allenby. Per chiederne una nuova dovevo produrre un documento della Croce Rossa in cui si attestava che ero stato detenuto nel dato carcere, nel dato periodo…ma io non ho potuto ricevere visite dalla Croce Rossa che dunque non poteva rilasciarmi la dichiarazione. Alla fine, dopo mille peripezie, ho riavuto il passaporto a fine novembre tramite un altro avvocato perché nel frattempo il mio è stato arrestato.

Per quale motivo?

È ancora in prigione, la procura dovrebbe formalizzare l’accusa di incitazione al terrorismo. Quello che ha fatto è stato partecipare a un presidio a Umm el-Fahem (città palestinese dentro Israele, ndr) contro i bombardamenti a Gaza. Ha parlato per qualche minuto al microfono, nemmeno con tutta l’immaginazione del mondo ci si può trovare un’incitazione al terrorismo: si è limitato a chiedere di cessare i bombardamenti sulla Striscia di Gaza denunciando l’uccisione di migliaia di civili.