Che Kevin Costner sia stato – da subito – il regista di tutti i suoi film e quindi, paradossalmente, soprattutto quelli non diretti da lui, è stato chiaro sin dalla sua prima apparizione. Il suo portamento nel quale s’intrecciano la grazia di Gary Cooper, l’eleganza di Cary Grant e la mondanità di Gregory Peck, a volte gli permette di prendere parte a situazioni apparentemente lontanissime da quella che si ritiene essere la sua sensibilità. Costner si è mostrato da subito come un anello di congiunzione fra la generazione di American Graffiti, il nuovo cinema hollywoodiano e un sogno di restaurare un classicismo perduto (quello dei Sam Wood, per esempio) a cui film come L’uomo dei sogni da un lato e immersioni para-pollackiane come il troppo poco celebrato Thirteen Days hanno compiutamente dato corpo.

Da qui a fare di Costner l’ultimo dei westerner il passo è brevissimo. Intanto il successo planetario e oscarizzato di Balla coi lupi, poi i cosiddetti flop di Waterworld (avercene…) e L’uomo del giorno dopo (con The Village di Shyamalan il film più lungimirante sul declino dell’impero americano) hanno fatto di lui un autore dalle ambizioni titaniche che nel frattempo si dava a film come Il segno della libellula – Dragonfly, strumenti utili a ripensare e ridisegnare la sua poetica.

Lanciato – in maniera proverbiale – da Lawrence Kasdan in un cameo da morto ne Il grande freddo, Costner ha conosciuto con Yellowstone una rinascita che gli ha permesso finalmente di mettere mano alla trilogia di Horizon. Le polemiche seguite alla decisione di abbandonare la serie tv della rinascita, la decisione di impegnare tutti i suoi averi (come Coppola) per dare corpo al progetto di Horizon, iscrivono di diritto Costner all’albo dei titani statunitensi.

E SE (FORSE…) è vero, come osserva Mathieu Macheret nella sua analisi su «Le Monde» che il film soffre di quel modo di filmare funzionale caratteristico della nuova narrazione televisuale a discapito di un’ampiezza epica, è pur vero che Costner autore si concede delle invenzioni di pura genialità invisibile (nel senso di montaggio invisibile) come il momento del sollevamento del carro impantanato nel fango che permette di conoscere dei personaggi mentre svolgono hawksianamente un lavoro.

La redazione consiglia:
Kevin Costner: «È una storia che contiene il dna di questo paese»Eppure, come non amare – senza riserve – un interprete e un regista, un autentico custode della tradizione western, che piaccia o meno, come Kevin Costner, che nel celebrare l’epica della frontiera celebra come una sapienza oggi ineguagliata un cinema e i suoi talenti mentre ci ricorda che il sogno delle donne e degli uomini che fuggivano dall’Europa in cerca di una nuova vita era un sogno abitato da popoli antichi, popoli che incarnavano una civiltà e una cultura distrutta dall’avanzata dell’uomo bianco.

Kevin Costner riesce al tempo stesso a essere elegiaco come il Ford autunnale, e brutale come Milius (la magnifica sinfonia del massacro iniziale). Prevedibile, dunque che «IndieWire» dia del conservatore a Costner mentre invece Horizon (un orizzonte che si sposta sempre più in avanti) si rivela come un commento estremamente preciso sullo stato della disunione. Costner ama raccontare, e ormai è come se avesse assorbito il classicismo di una volta facendone la sua voce.

A VEDERE Horizon, inevitabilmente sfilano uno per uno i film diretti e interpretati da Costner. Da Silverado, Wyatt Earp, Terra di confine – Open Range e anche i melodrammi sentimentali in cui magari viaggiava sui binari di sicurezza di un professionalismo solidissimo, dal ritmo impeccabile.
Horizon è l’immagine di un artista che mette in gioco tutto il suo mondo e tutta una carriera per dare corpo a una visione di un’America che già non esiste più (nemmeno quella che provava a ricordare che una volta si facevano dei western). Solo per questo motivo Kevin Costner merita il rispetto di chiunque ritenga che il cinema sia ancora una cosa vitale nella quale – rossellinianamente – o si fa un film o si crepa. E Kevin Costner ne ha pronti già altri: i due capitoli finali della saga di Horizon. Oggi chiedere di più al cinema «americano» è impossibile.