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Ken Loach, «speranza significa organizzarsi contro le destre»

Ken Loach, «speranza significa organizzarsi contro le destre»Una scena da «The Old Oak» di Ken Loach

Cannes 76 Parla il regista britannico, una piccola cittadina alla prova del razzismo nel film «The Old Oak»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 26 maggio 2023

Ci sono tre parole fondamentali nel vocabolario di Ken Loach per questi tempi: agitare, educare, organizzare. Spiega: «È un lessico che si riferisce alla vecchia tradizione dei sindacalisti americani, tra queste la più importante è ‘organizzare’ perché se non siamo organizzati non riusciremo mai a vincere. Certo, è fondamentale anche capire la realtà in cui viviamo, acquisirne una consapevolezza. Ci vuole un programma preciso su cui condurre le nostre battaglie, che sappia cogliere i disagi della società e trovare delle risposte». Battagliero come sempre, con l’energia magnifica di chi continua a resistere e a lottare, Loach è a Cannes con il suo nuovo film, The Old Oak (uscirà in Italia per Lucky Red), in concorso oggi. Una storia che riguarda il nostro presente in cui si mescolano razzismo, diffidenza verso l’altro, e quella povertà diffusa nell’Europa contemporanea, dove il benessere è ormai per pochi, che alimenta le ostilità verso i più deboli socialmente. L’«Old Oak» del titolo è un vecchio pub in una cittadina semi abbandonata nel nord dell’Inghilterra, lo stesso paesaggio che era nei precedenti Io, Daniel Blake e Sorry We Missed You, frequentato sempre dalle stesse persone. La routine del posto si interrompe con l’arrivo di un gruppo di rifugiati siriani, che mette in moto ostilità, rivendicazioni razziste fra gli abitanti sempre più aggressive. È davvero impossibile sperare in un futuro migliore? Dice Loach: «Ci vuole un cambiamento radicale. E il programma è cruciale perché muta il rapporto di potere all’interno della società, lo consegna alla classe lavoratrice sottraendolo ai grandi poteri economici. Non si può più accettare la politica dei socialdemocratici che hanno portato alla sconfitta, solo con un cambiamento radicale potremo affrontare questioni come la crisi climatica e molto altro». Lo incontriamo poche ore prima della proiezione, con lui Paul Laverty, il suo sceneggiatore e «complice» abituale dei suoi film, che interviene spesso nelle risposte.

«The Old Oak» mette a confronto due realtà: da una parte ci sono i rifugiati siriani che hanno perduto tutto nella guerra, dall’altra gli abitanti di una città impoverita e per questo incattivita, nel nord dell’Inghilterra.Come ha preso forma la scrittura?

Ken Loach: Le forze politiche di destra crescono anche perché creano odio contro dei capri espiatori. Per questo si devono mettere in atto scelte politiche capaci di colmare il vuoto a fronte dell’escalation ovunque della destra. In Inghilterra i conservatori occupano ogni spazio, in Grecia la destra ha vinto e così in Italia. Abbiamo scelto per questo una zona abbandonata dalle istituzioni e dalla politica che dopo la chiusura delle attività industriali, le miniere in questo caso, è stata dimenticata da tutti, conservatori e laburisti. Dai primi nessuno si aspetta più nulla, dai secondi si sentono traditi. Molte famiglie sono emigrate altrove, i negozi, le scuole, le biblioteche, persino le chiese hanno chiuso. E in questo contesto l’estrema destra ha trovato un terreno su cui prosperare. A un certo punto hanno cominciato a trasferire le persone più «problematiche» dai comuni ricchi in queste zone, poi vi hanno installato i rifugiati siriani che il governo doveva accogliere. Nella scrittura anche se il soggetto principale erano i rifugiati, abbiamo voluto confrontarci con l’insieme di queste contraddizioni che sono parte della società attuale. Per questo motivo, lo ripeto, organizzarsi è fondamentale, dobbiamo farlo in sindacati, anche se adesso è difficile. O in forme comunitarie.

Kean Loach a Cannes nel 2019, foto Ansa

Questa idea di costruire una comunità nella quale far crescere la possibilità di una realtà diversa, è una delle scommesse nella narrazione.

K.L. Ma è solo dentro a questa possibilità che una classe lavoratrice, operaia, può riuscire a condividere dei problemi che oggi sono di tutti, giovani e meno giovani; pensiamo alla questione degli alloggi, ci sono posti dove è impossibile vivere per la maggioranza delle persone fatta eccezione i super ricchi. O al sistema sanitario pubblico che è a pezzi, non c’è un componente della mia famiglia o di quella di Paul (Laverty, ndr) che non ha avuto delle esperienze orribili a causa della sanità. Che non è più in grado di rispondere ai bisogni delle persone, i medici, le infermiere scioperano ma non c’è nessuna rappresentanza politica che sia in grado di opporsi a quanto accade. Ecco dunque che ritorniamo alla necessità di un programma e di nuovi modi di organizzarci per cambiare, per fermare la destra che sta crescendo ovunque in Europa.
Paul Laverty: Ho trascorso diverso tempo coi rifugiati sulla rotta balcanica, vengono dall’Africa, dall’Afghanistan, dal Pakistan, fuggono guerre, siccità, carestie, passano dalla Turchia e dalla Grecia in condizioni di grande rischio. I loro vissuti sono una lente di ingrandimento sul nostro mondo, parlando con loro comprendi a fondo la realtà. È facile farne la causa di ogni nostro problema invece di andare alle radici di ciò che non funziona. In Europa queste persone subiscono spesso violenze, vengono picchiate, fatte aggredire dai cani, c’era un bambino che aveva visto suo zio venire gettato nell’acqua. Questi abusi non devono essere tollerati, dobbiamo isolare i razzisti in Italia e dare delle risposte razionali. Si deve avere un piano, si devono fare delle scelte. Poi, è anche vero che l’Europa ha lasciato l’Italia e la Grecia da sole a farsi carico di enormi sforzi coi migranti.

La destra nel nostro Paese appare per ora molto salda, e con un sostegno che arriva – come accade nel film – da quelle parti della società meno benestanti. Che impressione vi fa?

K.L. Credo che la destra in Italia sia la stessa che altrove in Europa, forse più estrema. È supportata anche da chi viene sfruttato sul posto di lavoro? Bisogna conoscere bene i propri nemici. Non sono convinto che l’intera classe lavoratrice sostenga la destra, forse alcune parti mentre altri sono rimasti delusi dalla sinistra. Ma se ci fosse da questa parte un cambiamento radicale le cose potrebbero andare meglio. Penso che una buona strategia sia informare le persone, lavorare per costruire relazioni, per conoscersi, organizzando eventi che possano essere la base di comunità, far sorridere le persone. Questo è un lavoro politico. C’è ancora una generosità fra la gente ma i politici eletti hanno un atteggiamento orribile e fanno di tutto per cancellarla. Le scuole in Inghilterra per esempio: non ci sono abbastanza insegnanti per quei bambini migranti che non parlano ancora inglese, il che crea ancora più esclusione. Si devono migliorare le condizioni sociali per permettere alla destra di non crescere.

Chi sono gli attori siriani del film?

K.L. Fanno tutti parte della comunità del posto dove abbiamo girato, tranne la ragazza che interpreta Yara, Ebla Mari. Abbiamo incontrato via zoom una quarantina di attrici siriane, tre ci hanno raggiunto in Inghilterra per le prove, alla fine abbiamo scelto lei. È una persona straordinaria, viene dal Golan, quella che lei chiama la Siria occupata.

Nonostante quanto ha vissuto il personaggio di Yara ha ancora la speranza di cambiare le cose, di resistere.

P.L. È il sentimento alla base del nostro film. Quando incontri persone che hanno attraversato tragedie così forti e mantengono questa capacità, è una dichiarazione molto forte. Certo, c’è anche chi pensa che la speranza è ‘oscena’ perché troppo amareggiato, per noi la speranza è una questione politica.
K.L. Solo con questa convinzione possiamo ancora lottare. Speranza significa organizzarsi, alimentare un movimento politico che deve essere forte, deciso e spietato come coloro a cui si oppone.

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