Keats: vorrei abbandonare tutto all’istante…
«Oggi non avevo nulla di particolare da dirti – scrive Keats a Fanny Brawne – ma siccome non volevo che ci fossero interruzioni nella nostra corrispondenza (che in futuro intendo offrire a Murray), ecco che scrivo qualcosa! Dio ti benedica, amore mio!». John Murray, editore, era nella redazione della odiosa «Quarterly Review» che aveva stroncato rudemente il suo Endimione – «… versi scritti per caso».
Keats scherzava, ma oggi soppesando la ricchezza imprevedibile di questa corrispondenza a cura di Alessandro Gallenzi: La valle dell’anima Lettere scelte 1815-1820 (Adelphi «Biblioteca», pp. 533, euro 24,00), viene da considerarla come un manifesto dirompente del romanticismo inglese, nella formulazione più ampia di quella letteraria che recita la solita sequenza della prima generazione (Coleridge, Wordsworth) e della seconda (Byron, Shelley, Keats). Ma Keats, più giovane, studente di medicina, con le tasche spesso vuote, londinese che al massimo arriva in Scozia con uno stupendo − quanto rovinoso per i suoi polmoni − viaggio a piedi, è testimone attivo nella vita culturale di quegli anni tra giovani squattrinati e ardenti radicali (Leigh Hunt, poeta, Benjamin Haydon, pittore, William Hazlitt, massimo critico, l’affettuoso coinquilino Brown e i numerosi altri, ai quali lasciò in eredità i suoi pochi libri, Clarke, Dilke, Taylor, Severn), in una girandola di reciproci prestiti, pranzi in famiglia, mostre, serate a teatro, infinite discussioni sulle arti e sulla vita.
Raccontato dalla voce tenorile di un ventenne eccezionale quel mondo è sotto i nostri occhi di lettori, due secoli dopo, quotidiano, fluido, sorprendente nei particolari, confortato da piccoli piaceri, cerimonie, gentilezze, speranze e timori – e irreparabili sventure.
Keats (nato nel 1795) non aveva conosciuto suo padre, morto in un misterioso incidente quando lui era ancora piccolo; a quindici anni aveva assistito sua madre, forse pazza, che morì di tubercolosi, allora chiamata «consunzione». Ma di loro non c’è menzione nelle lettere che iniziano nel 1815 con una poesia diretta a un amico, dove già posa da poeta in carriera.
«L’armonia di un bel verso ci fa lieti, / e ancor più un sodalizio tra poeti». «C’è da chiedersi – scrive Gallenzi nella postfazione – se Keats fosse cosciente di aver creato un’opera letteraria parallela a quella poetica». Sono riportati per intero le lettere in versi della prima giovinezza, il diario del viaggio in Scozia e Irlanda, le lettere-cronache al fratello George e alla moglie che vivevano in America, le lettere a Fanny Brawne. La scelta più ampia e ben curata, circa tre quarti del totale complessivo, mai pubblicata in Italia: gran bel lavoro, Gallenzi! Dopo le numerose traduzioni (Piccoli, Praz, Sabbadini, Roffi, Buffoni…) erano arrivate nel 1984 le essenziali Lettere sulla poesia di Nadia Fusini, che finemente commentava la costruzione della poetica keatsiana, le metafore portanti di quell’edificio che si era profilato mentre cresceva l’opera poetica: l’immaginazione-monastero, lui il monaco, l’anonimo ragno, l’eterno usignolo, la negative capability del poeta, la sua natura di camaleonte, l’anima-mondo, la vita allegorica…
Questa nuova edizione, che incorpora poesia e prosa, ci fa percepire l’intimità di quella scrittura di cui Keats stesso confessa i frequenti ghiribizzi: pesantissimo o leggerissimo per pagine intere, bizzarro ma asciutto, niente tropi e figure. «Devo poter saltare da Hazlitt a Patmore e far giocare Wordsworth e Colman alla cavallina … alcune lettere sono dei bei quadrati, altre degli stupendi ovali, mente altre sono circolari e altre sferiche: perciò perché non può essercene anche un’altra specie come una trappola per ratti?» – suggerimenti per i fantasiosi vittoriani a venire.
La scena della scrittura nella casa di Hampstead, Wentworth Place, primavera 1820 – abitata da Brown e Keats per una metà e da Fanny e la madre per l’altra metà –, è dipinta da Joseph Severn, qui in copertina. «Quando manderò lì da te questa lettera, mi troverò nel salottino, per vederti apparire un minuto in giardino. Ah, che barriera è la malattia tra te e me!»; «Oggi ti farai una bella passeggiata. Ti vedrò passare. Ti seguirò con lo sguardo sulla brughiera». Per una settimana ha usato una vecchia pennaccia che ha lasciato una macchia di marmellata sul Ben Jonson di Brown: «Ho provato a leccarla, ma è rimasto un alone rosastro rossastro … le due idee si sono mischiate, rosastro è davvero un bel nome»; «Le candele sono agli sgoccioli … il fuoco è ridotto all’ultimo scoppiettio… Sono seduto spalle al camino, con un piede messo un po’ di traverso sul tappeto e l’altro leggermente rialzato. La lettera è poggiata sulla Tragedia della fanciulla…». Scriverà dalla cabina della nave in quarantena nel porto di Napoli: «Severn (l’imperturbabile amico che lo accompagna ndr) sta benone». A Roma nella stanza che dà su Piazza di Spagna detterà dal suo letto l’ultima lettera per Brown, e non manca di sottolineare: «Severn sta benissimo» (30 novembre 1820).
Se l’autobiografia dilaga e si raccoglie attorno al soggetto, qui è scossa dal moto rapido degli avvenimenti. Sempre è minacciata da una sfaldatura invisibile: «fiacchezza e mal di gola», «un senso di costrizione», «una goccia di sangue». Per Keats il suo tempo non ha durata, e vorrebbe segnare se non frenarne il corso.
In una delle prime lettere, la 7 del 17 aprile 1817 all’amico Reynolds, ricorda che il 23 aprile era nato Shakespeare – lui il 31 ottobre. Ma sarebbe bello se in quel giorno ricevesse una lettera dai fratelli «…davvero una gran bella cosa». Vorrebbe congiungere la propria nascita a quella di Shakespeare? Che lo ha fatto poeta romantico diverso dai contemporanei famosi, che lo ha battezzato con quel verso sublime: «dentro l’abisso oscuro del passato» (The Tempest). Shakespeare tiene alto il vessillo di poeta, indica la vita allegorica, sospende il cupo rintocco di fondo: Tom e lo sbocco di sangue, Tom e la sua adolescenziale prefigurazione di morte.
Durante il viaggio in Scozia scriverà poche poesie, la brutale realtà mette a tacere l’immaginazione; ma con l’occhio attento di un reporter registra: «Le casupole scozzesi, benché a volte il fumo possa uscire solo dalla porta, sono dei palazzi in confronto a quelle irlandesi»; «Le ragazze vanno in giro a piedi nudi…»; «Oggi mi sono buttato come un passero su un pezzetto di pane bianco … era buonissimo. Non ce la faccio più con quella dannata focaccia»; «Siamo passati per monti desolati – oltre paludi, rocce e fiumi – coi risvolti delle braghe tirati su e le calze in mano». Sul Ben Nevis, il monte più alto della Gran Bretagna, scorci sublimi e invisibili abissi ripagano abbondantemente del mal di gola, della stanchezza, della povertà estrema degli alloggi di fortuna. Qualche bicchiere di whisky aiuta, insieme alla compagnia del buffo, noioso, sodale Brown. Gli è stato donato un ritratto del Bardo che porterà con sé, povera ma amata reliquia.
Nella passione per Fanny vi era incastonata l’ascesi poetica e la tenace volontà di vita, possesso, respiro. Tutto brucerà contemporaneamente in un unico rogo, condannato e perso con la disperazione di un desiderio invertito, la violenza dell’ultima «vita da postumo» – come scrisse.
Nella lettera d’addio a Fanny torna a proteggerlo Shakespeare. «Shakespeare riassume sempre le cose nella maniera più eccelsa. Il cuore di Amleto era pieno di tristezza come il mio quando disse a Ofelia: “Vattene in un convento! Va’, va’, va’!”. A dire il vero, vorrei abbandonare tutto all’istante… vorrei morire. Il mondo bestiale a cui sorridi mi disgusta. Odio gli uomini… e ancor più le donne» (Agosto? 1820). God bless you! J.K.
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