Lavoro

Karalò, il taglia e cuci ribelle

Karalò, il taglia e cuci ribelleKaralò, la sartoria a Communia a Roma – Matteo Nardone

Auto-organizzazione Dall’incontro tra i richiedenti asilo del Gambia, Senegal e Mali e gli attivisti di Communia nasce Karalò, la sartoria migrante che ricuce i legami e crea una nuova società. La storia del mutuo aiuto e della cooperazione produttiva supera i limiti del sistema di accoglienza italiano. Karalò è entrata nel circuito alternativo di auto-produzione e distribuzione creato «Fuori Mercato», una rete nazionale che collega realtà solidali ed etiche in contesti urbani e rurali da Nord a Sud

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 9 giugno 2017

«Karalò» significa «sarto» nella lingua mandingo. Questo è il nome di una sartoria che è riuscita a trasformarsi in un centro di aggregazione e socialità per migranti e attivisti a Roma. Nata all’interno dello Sprar – Sistema per richiedenti asilo e rifugiati -, da dicembre 2015 Karalò è ospitata nello spazio di mutuo soccorso Communia in via Tiburtina. Il progetto è stato inizialmente finanziato dalla cooperativa Eta Beta all’interno dello Sprar Gerini ma, dopo l’incontro con Communia, si è distaccato dallo Sprar e, con l’aiuto di studenti e precari, è stata ristrutturata una stanza abbandonata. Oggi è un tripudio di colori, disegni, di idee in cui si svolge un esperimento di auto-valorizzazione e cooperazione unico nel paese del decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione. L’alternativa è radicale: invece di spingere i richiedenti asilo al lavoro gratuito, si creano le condizioni per la loro auto-determinazione attraverso la produzione sartoriale e la trasmissione di saperi e competenze che in molti portano dai paesi di provenienza e trasmettono agli altri.

«IN SENEGAL E IN LIBIA facevo il saldatore, – racconta Hibraima, mentre muove abilmente le mani tra stoffe e macchine da cucire – ho imparato il mestiere di sarto grazie ai miei compagni più esperti, che si sono alternati in questo progetto. Un mestiere che mi aiuta a fuggire dalla realtà dei centri d’accoglienza, dalla difficoltà del mio passato e alla criminalità organizzata. Ora siamo in quattro, tutti sotto i trent’anni o appena trentenni, ci diamo una mano e speriamo di aiutare anche altre persone». Prima Mafia Capitale, poi la ‘ndrangheta crotonese, hanno fatto balzare agli orrori della cronaca le condizioni disastrose dei centri di accoglienza sul territorio nazionale e la questione del business sui migranti. Nei primi due mesi del 2017, sostengono i dati della Fondazione Ismu, i richiedenti asilo in Italia sono 24 mila, il 60% in più del 2016, anno in cui si era registrato il più alto numero di richieste. Per il 60% delle 90mila domande esaminate l’esito è stato negativo. Con il decreto Minniti-Orlando i dinieghi sono destinati a moltiplicarsi. Testimonianze, inchieste, dati, occupazioni e sgomberi forzati hanno dimostrato le difficoltà di rispettare gli standard fissati dallo Sprar.

Hibraima al lavoro, foto di Matteo Nardone
Hibraima al lavoro, foto di Matteo Nardone

A ROMA il sistema dell’accoglienza è sempre più una zona di indeterminatezza e sospensione, in cui i migranti sono affidati al caso. «La sartoria – racconta Fatima, attivista di Communia – è nata in questo clima agitato, in cui gli operatori delle cooperative coinvolte in Mafia Capitale si sono visti sospendere i propri salari e chiudere i progetti. Ci hanno contattato e abbiamo appoggiato le loro rivendicazioni nel nostro spazio: riunioni, cene, dibattiti, iniziative di autofinanziamento. E poi, durante un mercatino, abbiamo conosciuto i sarti». «Quando ho conosciuto questo progetto, ormai già avviato, nel maggio 2016, eravamo nel pieno di un’occupazione e rivolta all’interno dello Sprar. – ricorda Amadou, del Mali – Non ci davano il pocket money, che ammonta a circa 45 euro al mese, non ci davano cibo degno, eravamo servi e affamati, percepivamo il livore dell’opinione pubblica. A Communia ho trovato dei compagni, una casa, ho imparato un mestiere, mi sono sentito parte di una comunità e ho smesso di sentirmi “di passaggio”, transitante da un luogo all’altro, in attesa di uno status. Potevo utilizzare le mie competenze ed impararne altre».

IL PROGETTO si fonda su un’idea semplice e innovativa: garantire autonomia, personale ed economica, inclusione, condivisione e partecipazione ai richiedenti asilo, ripensando l’accoglienza in termini mutualistici, cooperativi e di emancipazione attraverso il lavoro, nel rispetto dei diritti sociali e individuali. «Sappiamo che la strada da fare è ancora lunga – afferma Hibraima – ma non ci arrendiamo. Abbiamo molte idee per far crescere il progetto. Allargarlo il più possibile sul territorio nazionale, per esempio. Organizzare più eventi. Riuscire a sostenerci totalmente in autonomia. Ecco cosa ci ha permesso di fare Karalò: ci ha permesso di tornare a sognare. E un uomo capace di sognare e di progettare è un uomo libero. Finalmente libero».

HIBRAIMA, Amadou, Dountuma e Hibraima sono supervisionati da Kalifa, del Gambia sarto di professione, e usano gli scampoli di stoffe e macchine da cucire donate da negozi, cittadini, mercatini, per creare abiti. Per finanziarsi organizzano cene e sfilate. Il progetto si sostiene grazie a una cassa di mutuo soccorso, utile per comprare materiali e garantire ai sarti una retribuzione dignitosa. «Molto arriva da donazioni di materiali riciclati, come abiti usati, tende, borse – spiega Fatima, orgogliosa di quanto fatto fino ad oggi – Tutto quello che viene creato poi viene venduto tramite i mercatini ospitati dagli spazi sociali: Forte Prenestino, nel quartiere Prenestino-Centocelle, La Torre, nel quartiere di Casal De’ Pazzi, Lucha y Siesta, nella zona di Cinecittà, e altri, a seconda di dove ci chiamano nel territorio cittadino. Il problema è l’inverno, periodo in cui i mercatini non ci sono. Bisogna trovare delle commissioni esterne, e allora i sarti realizzano shopper e abiti per sostenere altri progetti». La sartoria mira a realizzare un modello di accoglienza non assistenzialistico, ma partecipativo ed inclusivo. La sua esistenza ha attivato la comunità solidale di Communia. Lo spazio si è trasformato in un centro di produzione e cooperazione tra attivisti, frequentatori e migranti ospiti dello Sprar. È stata creata una scuola di italiano in collaborazione con l’aula studio Sharewood dove gli studenti insegnano la lingua ai migranti.

KARALÒ È ENTRATA nel circuito alternativo di auto-produzione e distribuzione creato da «Fuori Mercato», una rete nazionale che collega realtà solidali ed etiche in contesti urbani e rurali da Nord a Sud. La collaborazione è iniziata dopo la partecipazione ai pacchi di Natale, un’iniziativa nata in collaborazione con la serigrafia migrante Ja, la fabbrica recuperata RiMaflow e l’etichetta Sfrutta Zero volta all’acquisto, in tutto il territorio nazionale, dei prodotti delle realtà coinvolte nella rete. Queste relazioni permetteranno di rendere disponibili i prodotti sartoriali in più parti di Italia, utilizzando la piattaforma dell’acquisto online di FuoriMercato. «Qui è come in Africa, – racconta Amadou con un nuovo sorriso, giocherellando con l’ago e il filo – siamo tutti uguali. Nello Sprar la vita è passiva, rispettiamo degli orari, non possiamo fare niente. Il tempo non è nostro, viene scandito da altri. Siamo parcheggiati senza possibilità di vivere».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento