Les filles d’Olfa sono due adolescenti belle, spigliate davanti alla macchina da presa, parlano della loro vita che è campo/controcampo alle parole della madre, Olfa. E in questo intreccio di voci, a cui si aggiungono pian piano anche quelle delle altre due sorelle «fuori del quadro», solo dette, prende vita una narrazione stratificata che ci dice di una madre violenta, portatrice di un ordine patriarcale di cui a sua volta ha subito le aggressioni. Chi sono allora Olfa e le sue figlie? Donne in una Tunisia in tumulto, povere ancora più schiacciate dal dolore per la scelta delle sorelle maggiori di raggiungere appena adolescenti lo «stato islamico», e ora sono in prigione in Libia. Come raccontare questa storia oggi? È da qui che parte Kaouther Ben Ania componendo i frammenti di queste e vite e di queste storie in un dispositivo filmico di costante mise en abyme, in cui le sue protagoniste sono sé stesse e personaggi, e dove anche lei viene interrogata. Ne abbiamo parlato con la regista nei giorni del festival di Cannes dove Les filles d’Olfa (nelle sale italiane prossimamente) era in concorso – e ha vinto il premio per il miglior documentario.

Da cosa è nato questo film?

Volevo raccontare una storia di donne, di madre e di figlie, indagare questo rapporto che si idealizza. Olfa è insieme dolce e mostruosa, è un personaggio che rappresenta uno spettro molto ampio di contraddizioni, e questo mi interessa molto al cinema. Non mi piacciono le figure manichee, penso che siamo tutti multidimensionali, che siamo al tempo stesso sublimi e sordidi. Inoltre Olfa ha piena coscienza del suo modo di essere, della sua «mostruosità», e questo è molto forte. Io non volevo né giudicarla né condannarla, non è il mio ruolo, ho cercato invece di capire il perché della sua violenza. Molto rimanda a come è cresciuta, in una famiglia di sole donne, circondate dalla violenza al punto che ha deciso di «diventare l’uomo della famiglia» – si è tagliata i capelli, fatta i muscoli per difendere sé, la madre e le sorelle; nella giovinezza ha conosciuto solo il linguaggio della violenza e sappiamo che se si è segnati dalla violenza si finisce per perpetuarla. Le figlie lo dicono chiaramente che non è cattiva ma che ha fatto subire loro quello che ha subito lei.

Olfa però è dentro certi codici, nelle liti con le figlie maggiori preferisce il velo ai capelli blu.

Ha introiettato il patriarcato, quando dice che è diventata un uomo non si tratta solo dell’aspetto fisico; Olfa riproduce i codici del patriarcato che applica sulle figlie per proteggerle, e invece finisce per perderle.

Lei è presente nel film, sul set viene chiamata in causa, il suo punto di vista su Olfa e le figlie è molto chiaro. In che modo si è messa in gioco?

Ho iniziato a lavorare al film nel 2016, con Olfa e le figlie abbiamo imparato a conoscerci, e siamo riuscite a costruire una relazione molto forte. Questo mi ha permesso di porre questioni non semplici in una vicenda così tragica e legata all’intimità. Ci sono stati momenti critici, e anche parecchie tensioni, alcune le ho tenute nel film. Ma il margine di sorpresa è l’aspetto che più mi piace nel documentario; non si possono prevedere le reazioni dei personaggi, nella finzione tutto è scritto, nel documentario sono loro che reagiscono e io mi adatto, sono la prima spettatrice del mio film.

Quale è stata invece la difficoltà maggiore?

Forse creare una coerenza in una storia era talmente complicata. Il reale non è sceneggiato ma caotico, dovevo costruire un senso, dei legami tra gli avvenimenti che sono molti e vanno in più direzioni. Come dare forma a questa narrazione, renderla comprensibile allo spettatore senza fare un film di cinque ore, ottenere questa economia con un dispositivo a più livelli sono state le sfide del film.

Le sorelle che hanno scelto il Daesh sono raccontate dalle altre due e dalla madre. La loro adesione all’ideologia radicale sembra rapida, ma questo percorso rimane fuori campo.

Non del tutto, ne parlano appunto le più giovani, ma loro non ci sono, non ho le loro voci, il loro punto di vista e per onestà intellettuale mi sono fermata alla madre e alle sorelle che danno indicazioni alle attrici che le interpretano. Ho cercato di capire le ragioni della loro radicalizzazione, credo che siano molteplici, rimandano all’infanzia e al contesto politico del momento.

Pensa che dopo la rivoluzione in Tunisia i casi di radicalizzazione siano aumentati?

Sì, anche se non si deve dimenticare che nella regione ci sono stati molti sconvolgimenti tra cui l’arrivo del Daesh in Siria. Gramsci dice che quando il vecchio mondo muore e il nuovo tarda a venire nel chiaroscuro tra i due nascono i mostri; è un po’ quello che è successo in Tunisia, c’è stata una rivoluzione, il vecchio mondo è morto e i frutti della rivoluzione non ci sono ancora. Queste ragazze si sono trovate nel pieno dell’adolescenza lì.

Hanno mai cercato di tornare?

Ci sono diverse interviste con loro dopo l’arresto che non ho messo nel film in cui dicono di essersi pentite; avevano 15 o 16 anni, la loro non è stata una decisione cosciente , hanno seguito un impulso per fuggire dalla madre con l’idea di morire e andare in paradiso. Non so cosa accadrà nel loro futuro, la decisione spetta al governo tunisino ma sono storie complicate, i governi non si sentono sicuri, è più facile tenere queste persone lontane.

Il dispositivo del film all’inizio è molto spiazzante per lo spettatore, questo entrare e uscire dalla storia, dai personaggi senza capire bene se si è davanti a delle attrici o no: lo aveva in mente dall’inizio?

Ho cominciato con un documentario classico di osservazione ma non funzionava, non c’era il passato e non sapevo come convocarlo. Non sapevo come Olfa e le figlie che sono personaggi potevano dirmi ciò che cercavo, e io avevo bisogno degli strumenti del cinema per analizzare i loro ricordi. Ho messo in scena un «reenactment» che oggi è anche un cliché del documentario, l’ho cambiato cercando il dialogo in un laboratorio sulla parola, sul suo uso e sul suo significato.