Era un paio di guerre fa, più o meno. Un felice 2010 in cui l’Afghanistan era conquistato, l’Iraq occupato, la pacificazione marciava a tappe forzate, afghani e iracheni un po’ si organizzavano per votare e un po’ per ammazzarsi. Finché, il 5 aprile, tutti vedemmo quel filmato atroce di due elicotteri Apache che macellavano di mitragliate una dozzina di iracheni a terra, tra cui due giornalisti della Reuters con una telecamera che all’elicotterista sembrò un’arma.
Quel video svegliò qualche milione di coscienze addormentate da anni di guerra non più guerreggiata ma non meno sanguinosa, fece capire cosa significava essere un civile in tempi di occupazione americana, fece partire una caccia all’uomo durata tre presidenze (Obama, Trump e Biden).

Fu il primo grande botto di Wikileaks. Che lavorava alle soffiate tecno-internazionali già da qualche anno, rivelando a destra e a manca complotti in Somalia, attività hacker in Cina, corruzione in Kenya, prigionieri senza nome o diritti a Guantanamo e altri dettagli della prassi democratica del pianeta. Quel video di 17 minuti, presentato in una conferenza stampa a Washington da un curioso individuo coi capelli di platino chiamato Julian Assange, aveva una provenienza precisa, un militare di nome Bradley Manning, analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq. Manning venne arrestato, accusato di aver consegnato migliaia di documenti riservati a Wikileaks, detenuto in condizioni inumane e infine condannato a 35 anni. Il giorno della sentenza disse di riconoscersi nel genere femminile e di voler essere chiamata Chelsea Manning. Obama la graziò dopo 4 anni e mezzo – un altro anno lo fece nel 2019 per essersi rifiutata di testimoniare al grand jury contro Assange.

Tre anni dopo il video di Manning, nel 2013, un analista della Cia si licenziò dall’ultimo incarico da 10mila dollari al mese presso un contractor della Difesa Usa, visse per qualche mese alle Hawaii covando i dubbi sull’intero lavoro dei suoi ultimi anni, poi prese un aereo per Hong Kong e da là rivelò al mondo che eravamo tutti spiati: telefoni di casa, cellulari, email e traffico internet, di comuni cittadini come di capi di stato e di governo, tutto quanto finiva sotto gli occhi e nei computer della National Security Agency americana. Quell’uomo era Edward Snowden, aveva trent’anni e 145 di quoziente di intelligenza, e lo sapeva per certo perché lo faceva lui, attraverso programmi clandestini di sorveglianza elettronica. Altro giro del mondo di scandali, altro armageddon mediatico e politico, altra caccia all’occidentale infedele che metteva in discussione la prassi dell’Ovest libero e democratico.

Snowden non finì come Manning. Riuscì a squagliarsela da Hong Kong anche grazie a Wikileaks: mentre Assange dichiarava ai quattro venti che lo avrebbero portato in Islanda, lui e un’altra dirigente di Wikileaks salivano su un volo verso Mosca. Gli americani non capirono più niente, cercarono persino di dirottare l’aereo del presidente boliviano Evo Morales, convinti che Snowden fosse a bordo. Non era lì.
Vive ancora in Russia.