Julian Barnes, fedele all’apostasia una insegnante seduce malgré soi
Scrittori inglesi «Elizabeth Finch» incantava i suoi allievi, uomini e donne adulti, in cerca dell’ultima chance per imparare: a un ex studente l’eredità dei suoi scritti e il compito di raccontarla. Da Einaudi
Scrittori inglesi «Elizabeth Finch» incantava i suoi allievi, uomini e donne adulti, in cerca dell’ultima chance per imparare: a un ex studente l’eredità dei suoi scritti e il compito di raccontarla. Da Einaudi
Scrivere oggi un libro privo di effetti speciali, estraneo agli inabissamenti autobiografici, che non approfitti della proverbiale elasticità della forma romanzo per deragliare verso ibridazioni saggistiche, e per giunta non cerchi di potenziare il suo appeal con inserti fotografici, sembra al limite dell’azzardo. Rischia di indurre sospetti sul fatto che l’autore sia fuori dal suo tempo, un merito per alcuni, un fattore di scarto per altri.
Se poi, oltre a sottrarre alla critica moventi di stupore, l’autore si affida per di più a una scrittura piana, paratattica, trasparente, lo sconcerto raddoppia e la punizione è dietro l’angolo. Non si spiega altrimenti la pessima accoglienza che la critica inglese e quella americana hanno riservato all’ultimo bel romanzo di Julian Barnes, Elizabeth Finch (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 184, € 18,00) che sebbene non sfiori la qualità di quel capolavoro del 2011 che è Il senso di una fine, si risolve tuttavia nell’ottima confezione di una storia né eccentrica né ordinaria, la cui attrattiva principale sta nella consequenzialità con cui la scrittura ne pedina i passaggi, non senza introdurre almeno un ingrediente anomalo, ovvero un capitolo della Storia nella storia inventata.
Esercizi di autonomia
La donna da cui prende il titolo il romanzo è una insegnante che ha scelto di dedicarsi agli adulti, perché trova condivisibile, e anzi commovente, la loro consapevolezza del fatto «che potrebbero essersi persi qualcosa e che ora gli si presenta l’occasione – forse l’ultima occasione – di rimediare».
Elizabeth Finch ritiene che il suo compito sia aiutare i propri allievi a dotarsi degli strumenti per formulare pensieri autonomi, imbastire discussioni proficue, attrezzarsi con strumenti conoscitivi non di seconda mano: quando ancora lo spirito critico era patrimonio diffuso, si sarebbe detto che le sue lezioni ne erano una palestra.
Elizabeth, che non si sarebbe mai lasciata chiamare per nome dal primo venuto, non era affatto snob, ci assicura la voce narrante di Neil, suo ex allievo che la ricorda a distanza di anni, essendo divenuto alla morte di lei l’erede di tutti i suoi scritti: «Nel mio occhio interiore – l’occhio della memoria, l’unico spazio in cui riesco ancora a vederla – ci sta di fronte in piedi, fermissima. Non aveva nessuna delle movenze e dei gesti studiati per sedurre, distrarre o suggerire una personalità forte».
Eppure, l’impressione che i suoi allievi ne derivano è indelebile: li incanta, di lei, la impeccabilità del linguaggio, di cui sembra persino possibile visualizzare la punteggiatura, tanto precise suonano le scansioni delle sue frasi. Ogni tanto Elizabeth si concede salti di registro verso il parlato quotidiano, il suo ragionamento è sempre controintuitivo, e per quanto si mostri impenetrabile si indovina in lei il temperamento di una «romantica pessimista».
Il tempo si è già incaricato di rimettere a fuoco il personaggio quando Neil decide di scriverne, ma lui ne è ancora infatuato: è un uomo perbene e qualunque, ex attore di piccole parti in tv, ex doppiatore, aspirante sceneggiatore, all’occorrenza cameriere, più spesso intrettenitore di comitive in crociera, insieme alla sua prima moglie, con la quale si era trasferito a un certo punto in campagna per dedicarsi alla coltivazione dei funghi prima, e dei pomodori idroponici poi. Non è il suo unico matrimonio: quando incontra Elizabeth Finch ne ha alle spalle un altro, anch’esso fallito, ha tre figlie una delle quali lo ha incoronato Re dei Progetti Incompiuti, e sta consumando una terza relazione con un’altra studentessa adulta, Anna, che stabilisce anche lei, non senza una certa competitività, un rapporto privilegiato con la loro insegnante.
Successi del fallimento
Il ritratto di Elizabeth Finch ci viene restituito dal punto di vista di Neil, non da quello di Barnes, come si sarebbe indotti a credere dalla stroncatura di Sam Byers sul «Guardian», che a dieci giorni dalla prima critica negativa firmata, sullo stesso giornale, da Anthony Cummins, ribadisce come lungi dall’indirizzare i suoi studenti lontano dall’ovvio la decantata insegnante ce li faccia sprofondare. Effettivamente, alcune delle sue massime sono fatte per épater i cuori semplici: per esempio quando suggerisce «l’idea che il fallimento ci possa raccontare più cose del successo»; o quando insegna che «l’artificio produce autenticità»; e che «l’amore è tutto quel che c’è»; o che, in quanto manifestazioni del dubbio, «gli apostati sono sempre più interessanti dei veri credenti». Ma il fatto che in queste frasi vengano lette delle autentiche rivelazioni è perfettamente coerente con la naïveté del personaggio Neil, e dunque contribuisce a rendere il romanzo una credibile finzione.
Peraltro, indifferente all’intento di catturare nel vortice narrativo il lettore, Julian Barnes gli ammannisce una seconda parte che, germinata dalle frequenti citazioni dagli appunti della ormai defunta Elizabeth, si presenta a chi legge come uno fra i tanti pezzi del suo diario, per assumere via via la forma di una lunga dilazione storica su Giuliano l’Apostata, che Elizabeth elegge a suo modello esistenziale, e al quale arriva passando da Swinburne.
Ultimo imperatore pagano, Julianus era un guerriero studioso, che partì per la campagna di Gallia avendo al seguito la biblioteca donatagli dell’imperatrice Eusebia affinché potesse leggere, tra una battaglia e l’altra. Se non fosse stato sconfitto, permettendo il definitivo trionfo del Cristianesimo – riflette Neil guidato dagli appunti della sua ex insegnante – forse l’Illuminismo si sarebbe rivelato superfluo in quanto già realizzati i suoi ideali. E avremmo avuto «la vittoria intellettuale di ciò in cui l’Ellenismo perlopiù credeva: che se esiste una qualche gioia nella vita, essa è da cogliere in questo nostro passaggio sublunare, e non in chissà quale assurdo paradiso disneyano dopo la nostra morte». Fantasie, condivise e esaltate dai più illustri esponenti della ratio filosofica nonché da Hitler, che vi vedeva condensata tutta «la saggezza del mondo antico».
Entra l’Apostata
Poco meno di cinquanta pagine dopo, quando ormai da un pezzo ci eravamo disillusi sul carattere di citazione del frammento relativo all’Apostata, Neil torna a riprendere le fila del suo rapporto con Elizabeth Finch, e si complimenta con se stesso per avere portato a compimento almeno questo progetto non suo: ovvero, per l’appunto, ricostruire la figura di quell’imperatore pagano di cui la sua maestra aveva appena appuntato il nome, non avendo avuto il tempo per ripercorrerne la storia.
Maestro nell’arte del dialogo, Julian Barnes introduce nel romanzo il personaggio di Chris, fratello di Elizabeth sotto le mentite spoglie dell’inglesissimo sempliciotto, allo scopo di fornire a Neil un interlocutore in grado di riempire qualche buco nella biografia della sua insegnante. E fa tornare in campo l’ex fidanzata Anna, anche lei al servizio, oltre che della trama, della possibilità di allestire sulla pagina quei godibili battibecchi che fanno di Barnes il più sofisticato degli scrittori inglesi.
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