Julia Lovell, diplomazia del cannone tra i fumi del papavero
Saggi Decostruendo i luoghi comuni, spesso razzisti, sul conflitto sino-britannico del 1839-1842, Julia Lovell indaga le premesse alla comparsa di un impero globale: «La guerra dell’oppio e la nascita della Cina moderna», da Einaudi
Il treno merci proveniente dalla remota città cinese di Zhenjiang giunto a Londra il 18 gennaio 2017, dopo aver percorso 12 mila chilometri in poco meno di tre settimane, ha inaugurato la moderna via della seta e con essa una nuova era negli scambi commerciali tra l’Inghilterra e la Cina, basata su contratti formalmente tra uguali ma fortemente sbilanciati a favore della potenza asiatica. Nel corso dell’Ottocento e all’indomani della prima Guerra dell’oppio, che si era consumata tra il 1839 e il 1842, i cosiddetti «accordi diseguali» erano invece trattati politico-economici tra la Cina e l’Occidente, a tutto vantaggio degli ex imperi coloniali: ne parla ora un brillante volume di Julia Lovell, La guerra dell’oppio e la nascita della Cina moderna (traduzione di Alessandro Manna, Einaudi, pp. 544, € 34,00).
L’avanzata della droga
Notizie sull’avanzata di questa droga – macinata, cotta, assunta come infuso, saltata in padella dagli intraprendenti cuochi della dinastia Ming – nell’impero cinese se ne hanno già dall’VIII secolo: certamente, solo l’affermarsi, a partire dai primi anni del XIX secolo, di un fiorente mercato dell’oppio prodotto in India e venduto dagli inglesi in Cina, rese il suo uso diffusissimo, soprattutto tra le élite del paese, compreso il giovane futuro imperatore Daoguang il quale però, salito al trono nel 1820, avrebbe scatenato una crociata contro la droga e condotto il paese verso una guerra disastrosa. L’oppio divenne il capro espiatorio di tutti i mali dell’impero. A spingere i cinesi a proibirne il commercio fu fondamentalmente uno scontro tra interessi divergenti, tutti diretti alla commercializzazione della droga: la Cina non era in conflitto esclusivamente con l’Occidente, ma anche con se stessa.
Tuttavia negli anni Trenta gli effetti della droga (che nel frattempo era divenuta illegale) spinsero la dinastia Qing a proibirne l’ingresso nel paese, scatenando la reazione della Gran Bretagna, la cui Compagnia delle indie orientali ne deteneva il monopolio. Gli inglesi infatti colsero il casus belli per provocare una guerra, che dopo sanguinose battaglie si concluse con la pace di Nanchino, il primo dei trattati diseguali, che segnò la conquista di Hong Kong da parte degli inglesi e l’inizio dell’imperialismo occidentale nell’Asia dell’Est. La «diplomazia delle cannoniere» minò la sovranità e l’autonomia della Cina, comportando tuttavia un’apertura della cultura cinese nei confronti di quella europea, inimmaginabile fino a quel momento.
Il saggio di Julia Lovell ha l’ambizione di decostruire stereotipi e luoghi comuni delle mentalità e dei linguaggi di entrambe le parti in conflitto: da un lato la potenza coloniale che, dopo aver risollevato il proprio disavanzo commerciale grazie al commercio dell’oppio, scatena una guerra per garantirsi un avamposto asiatico e un mercato sconfinato per i propri prodotti; dall’altro uno Stato in crisi, ma non come spesso si pensa in decadenza, che non si sarebbe ripreso da questa sconfitta fino alla fine della dinastia nel 1912.
Tra le pretese della parte cinese, che demonizzava la guerra dell’oppio come emblematico atto di aggressione, e quelle britanniche che rappresentavano l’Impero celeste come retrivo e arrogante, Lovell – docente di Storia della Cina moderna al Birkbeck College di Londra – attingendo a fonti anglofone e cinesi, restituisce il conflitto attraverso il caleidoscopico mondo sino-britannico, a volte tragicomico, composto da imperatori esausti, missionari bigotti, generali bugiardi, faccendieri, contrabbandieri e pragmatici collaborazionisti di entrambi gli schieramenti. Una tragicommedia impersonata da un lato dal dilettantismo di buona parte della classe dirigente inglese di stanza in Cina, da un altro dall’impreparazione militare cinese che, forte dell’esercito più numeroso del mondo (800 mila uomini), non seppe far fronte a una potenza decisamente meno nutrita e neanche così ben organizzata.
Sia il cliché del cinese ottuso e xenofobo, costruito dalla propaganda interventista britannica e capace di influenzare le rappresentazioni dell’Oriente per tutto il XIX e XX secolo, che il luogo comune, ancora presente nell’ortodossia comunista, di una Cina che all’inizio dell’Ottocento subì, da parte di spietati mercanti inglesi, il consumo della droga indiana, vengono puntualmente smontati da Lovell. La versione occidentale servì da grimaldello agli inglesi per accaparrarsi un mercato immenso, quella cinese utilizzò la guerra dell’oppio e la sua storia in un primo momento per giustificare il nazionalismo, poi, con l’ascesa di Mao, per trasmettere una storia ufficiale che teleologicamente procede dalle umiliazioni imposte dall’Occidente alla liberazione realizzata, come spiega un recente manuale di storia dell’Università di Pechino, dalle «masse di buon cuore per la grande rinascita della razza cinese». Questo uso pubblico del passato (le democrazie costituzionali non ne sono ovviamente immuni) nella Cina contemporanea si tinge tuttavia di un riscoperto nazionalismo, incoraggiando il controllo della ricerca storica, unita a una crescente irreggimentazione politica.
Visione univoca
Dopo lo spartiacque di piazza Tienanmen, oltre al soffocamento del dissenso è cresciuta in Cina una visione univoca della storia e in particolare della guerra dell’oppio interpretata come frutto del diabolico commercio degli occidentali. Ma, ci spiega intelligentemente l’autrice, la versione ufficiale del partito – che vede nella guerra dell’oppio il punto di avvio della storia modera cinese – risente paradossalmente di una prospettiva interamente eurocentrica, secondo la quale l’Impero Qing, sprofondato in una dimensione feudale, arretrata e decadente, si sarebbe risvegliato dal «sonno della ragione» solo grazie all’intervento inglese. L’hegeliana teoria dei «popoli senza storia», secondo la quale una nazione non ha storia se non è riconducibile a una formazione statale, con le sue implicazioni reazionarie, che lo stesso Friedrich Engels applicò impropriamente alle popolazioni slave, è sussunta, con un inusitato tasso di orientalismo, non solo dalla retorica inglese ottocentesca, ma dall’ideologia dominante cinese. Le cannoniere britanniche non segnano l’ingresso della Cina nella storia moderna ma aprono una breccia per il suo debutto in quella globale.
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