Quel che accadde durante il massacro di Katyń – chiuso in una menzogna durata quasi mezzo secolo – venne ammesso dalle autorità sovietiche soltanto nel 1990, quando Gorbačëv riconobbe quanto in Occidente si sapeva già da tempo: l’assassinio nel 1940 di oltre 20.000 ufficiali e sottoufficiali polacchi internati nei campi di prigionia di Kozel’sk, Starobil’sk e Ostaškov altro non era che uno dei molti crimini dello stalinismo. Un genocidio perfettamente iscritto nel progetto totalitario delle autorità del Cremlino: i quadri dell’esercito polacco erano infatti composti da scienziati, medici, ingegneri, avvocati, insegnanti, dipendenti pubblici, membri di quell’intellighenzia che incarnava i principi dell’idea di Nazione, un ingombrante ostacolo sulla strada dell’imperialismo sovietico. Quel che accadde a Katyń si prestò anche a ripagare la Polonia dell’onta subita vent’anni prima, ai tempi della guerra sovietico-polacca, infliggendo un pesantissimo colpo alla nazione che intralciava i progetti egemonici europei della Russia.

Uno degli ufficiali imprigionati, Józef Czapski, venne sottratto alla sorte toccata ai compagni d’arme dall’intervento di conoscenze influenti, cosa che avrebbe scoperto solo in seguito all’apertura degli archivi nel 1990. Dopo avere conosciuto il rigore della prigionia sovietica, nel 1941 si ritrovò improvvisamente libero in virtù dell’accordo per cui, a seguito dell’invasione nazista dell’Unione sovietica, polacchi e sovietici facevano fronte comune, loro malgrado, contro il Terzo Reich. Intellettuale di indole pacifista, più a suo agio col pennello in mano che con il fucile, Czapski ricevette direttamente dal generale Anders l’incarico di raccogliere informazioni sul destino delle migliaia di ufficiali polacchi che, dopo l’«amnistia» concessa ai prigionieri di guerra, non si presentavano nei punti di arruolamento del resuscitato esercito polacco. Ebbe inizio, così, una terribile inchiesta. Negli appunti presi a caldo e negli episodi rievocati a breve distanza, con una scrittura asciutta e senza alcuna concessione al pathos, Józef Czapski raccolse testimonianze drammatiche dei superstiti e delle vittime, ora leggibili in La terra inumana (tradotto da Andrea Ceccherelli, autore anche della postfazione, e da Tullia Villanova, Adelphi, pp. 459, € 28,00).

Durante la sua disperata ricerca, Czapski arrivò a conoscere il sistema staliniano nelle sue molteplici componenti, percorrendo il paese in lungo e in largo, dall’Ucraina alla Russia del Nord, da Mosca all’Uzbekistan, ascoltando le storie drammatiche dei sommersi e dei salvati dell’universo concentrazionario sovietico. In seguito alla scoperta delle fosse comuni vicino a Smolensk, si sarebbe occupato a guerra finita di smontare il revisionismo degli ex-alleati di fronte alle commissioni d’inchiesta occidentali.

Uscito nel 1949 a Parigi dalla casa editrice polacca dell’emigrazione Instytut Literacki, La terra inumana fu tradotto nello stesso anno in francese, nel 1951 in inglese, nel 1967 in tedesco, mentre in Polonia circolava fino al 1989 solo in edizioni clandestine. Finalmente disponibile in italiano, il libro getta il lettore nella geènna del sistema stalinista, mondo già compiutamente orwelliano dove tuttavia si intravedono ancora le tracce sbiadite della Russia prerivoluzionaria. Czapski registra l’imbarbarimento estetico dell’arte russa, avvilita dai dettami del realismo socialista, il deperimento morale di una società dove, dietro la cortina fumogena dell’apparente fiducia nella rivoluzione, si nasconde un paese povero, impaurito e oppresso da profonde diseguaglianze sociali. Con acume giornalistico, annota la pervasività della menzogna (in primo luogo capziosamente linguistica) finalizzata a giustificare prima e a realizzare poi l’annientamento; racconta l’atteggiamento acritico della popolazione, incapace ormai di ragionare, mettendolo impietosamente a confronto con il fermento e l’inquietudine intellettuale della Russia conosciuta negli anni della giovinezza. Come insegnano i libri di Orwell, di Levi, di Šalamov, di Herling, anche quello di Czapski ricorda che il pensiero si spegne quando viene meno la speranza, e con essa la residua volontà di opporre resistenza. Allora l’uomo è pura argilla nelle mani dell’uomo.

In quel contesto atroce, Czapski aveva compreso fino in fondo quanto la memoria e la cultura siano strumenti imprescindibili per contrastare la barbarie. Nell’inverno 1940-1941, insieme ad altri ufficiali polacchi, organizzò nel campo di detenzione di Grjazovec, vicino Vologda, un ciclo di discussioni su svariati argomenti culturali, dedicando la sua relazione all’amato Proust. Gli appunti a caldo che prese in francese si sarebbero poi tradotti nello splendido saggio Proust a Grjazovec (Adelphi 2015). Czapski divenne responsabile del Reparto Cultura e Stampa dell’esercito di Anders, e la seconda parte della Terra inumana ne segue la storia, dalla formazione fino all’arrivo in Persia, passando per la difficilissima e tragica – poiché disseminata di morti – operazione di uscita dall’Unione Sovietica. I soldati polacchi furono capaci di dar vita a riviste, case editrici, associazioni, teatri, scuole, facendo del loro esercito uno straordinario laboratorio sociale e culturale, quasi una sorta di sostituzione metonimica dell’agognato stato polacco.

La  cultura, soprattutto letteraria, della Russia lasciò tracce profonde nella mente e nella scrittura di Czapski, che infatti denunciò, nella Terra inumana, non tanto un paese quanto un sistema dove «l’uomo non conta nulla» in nome non solo delle innumerevoli vittime e famiglie di deportati polacchi, ma di tutti coloro – russi soprattutto – sofferenti per un governo che aveva «addestrato le persone alla crudeltà disumana, all’ubbidienza cieca, a eseguire i compiti a prezzo del sangue e a dispetto di tutto ciò che all’uomo è caro, alla delazione obbligatoria». Czapski scrive nella consapevolezza della profonda spiritualità che sentiva scorrere nelle vene del popolo russo, testimoniata fra l’altro da quei contadini che gettavano ai deportati polacchi – moribondi e coperti di stracci nei vagoni gelati – mais e pezzi di pane secco.

Accanto ai grandi protagonisti della storia polacca (Władysław Sikorski, Władysław Anders, Stanisław Kot) o della letteratura (Anna Achmatova, Ilja Erenburg, Władysław Broniewski), colti in penetranti ritratti psicologici, nella grande carrellata di ritratti che compongono queste pagine ritroviamo nomi e volti comuni che Czapski tenta di sottrarre all’oblio. I gesti soccorrevoli che registra sono gocce in un mare di barbarie, in una terra che i due autori della gradevole traduzione italiana hanno voluto chiamare «inumana», termine dotato di un’alta carica di disperazione, che allude a un mondo da cui l’uomo è stato esiliato o negato, più neutrale e meno giudicante di quanto non sarebbe stato l’ovvio «disumana». Al centro del libro di Czapski, la domanda che arrovellava l’autore suona ancora oggi urgente per la nostra Europa, e riguarda la natura e il destino della Russia. «Quante volte cancellando, liquidando tribù, popoli e intere repubbliche, dalla Terra di Novgorod ai tempi di Ivan III fino alla Repubblica di Calmucchia, alla Repubblica di Crimea e alla Repubblica di Cecenia ai tempi di Stalin, cambiando i nomi dei fiumi e delle città che erano stati testimoni di rivolte o massacri, perfino cambiando il proprio sistema politico, la Russia ha condannato all’onta del disonore o all’oblio il suo stesso passato»?