Cultura

Josef Lewkowicz, la forza irriducibile della memoria

Josef Lewkowicz, la forza irriducibile della memoriaA destra, oggetti dei deportati ad Auschwitz. Foto di Mario Dondero

L'intervista Parla l’autore de «Il sopravvissuto di Auschwitz», per Newton Compton. Deportato quando aveva 16 anni, nel dopoguerra ha contribuito alla cattura di diversi criminali nazisti. Oggi, a 96 anni continua da Gerusalemme la sua battaglia per la memoria. «Sento di dover raccontare la mia storia a più persone possibili perché diventino a loro volta testimoni. Oltre all’antisemitismo, oggi la sfida viene dal non fare la differenza tra il vero e il falso»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 26 gennaio 2024

«Ho paura di essere sul punto di crollare. Sospiro profondamente e mi curvo in avanti, come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Piango, anche se pensavo che non mi fossero rimaste altre lacrime. Mi si spezza il cuore. Ho impiegato quasi ottant’anni per trovare il coraggio di tornare in questo luogo maledetto, disseminato di massi ridotti in frantumi e pietre più piccole a fare da lapidi (…). Qui circa 600mila ebrei hanno trovato la morte, tra il marzo e il dicembre del 1942. Campo di sterminio di Bełzec».

Josef Lewkowicz ha oggi 96 anni e dopo la fine della Seconda guerra mondiale, al termine di un percorso che lo ha portato anche in America Latina, ha scelto di trasferirsi in Israele, dove vive a Gerusalemme. Quando fu deportato in un lager dai nazisti insieme a tutti i suoi famigliari, ne aveva solo 16. Dopo essere stato separato da madre, fratelli e dal resto della famiglia all’arrivo, tutti mandati subito nelle camere a gas, avrebbe perso anche il padre e affrontato il trasferimento in sei campi di sterminio tra cui Auschwitz, Mauthausen, Płaszów e Belzec.

Scampato alla morte, avrebbe aiutato gli Alleati a catturare e affidare alla giustizia alcuni dei criminali nazisti che aveva incontrato nei lager, tra cui l’ufficiale delle SS Amon Göth, ribattezzato per la sua efferatezza come «il macellaio di Płaszów», la cui ferocia è stata raccontata da a Steven Spielberg in Schindler’s List. Inoltre, insieme ad altri ex deportati ha contribuito a rintracciare centinaia di bambini ebrei che erano stati nascosti dai genitori, poi uccisi dai nazisti, per salvarli dallo sterminio.

Dopo un lungo silenzio, simile a quello di tanti altri e altre scampati alla Shoah, Lewkowicz ha scelto di raccontare la sua storia ne Il sopravvissuto di Auschwitz, scritto insieme al giornalista inglese Michael Calvin (Newton Compton, pp. 280, euro 10) e partecipando alle attività dedicate alla memoria della Shoah promosse dall’associazione JRoots.

Josef Lewkowicz al Museo memoriale del lager di Belzec. © Jroots

Lei è stato deportato quando era solo un adolescente, cosa ricorda di quel momento?
Il mio mondo è cambiato da un giorno all’altro. L’Olocausto e i campi di concentramento erano letteralmente un altro pianeta, nemmeno un «mondo parallelo». Forse essere un adolescente è stato quasi un vantaggio, in un certo senso. Ero avventuroso e avevo la vita davanti a me. Ti adatti. Impari a sopravvivere. Questo è tutto: ogni giorno trovi uno spiraglio, un barlume di luce, un boccone di cibo e continui ad andare avanti.

Nel 1943 si trovava a Płaszów quando Amon Göth ne assunse il comando: un uomo che uccideva ogni giorno dei prigionieri a caso. Lei è riuscito a sopravvivere, cosa l’ha guidata?
In realtà sono sopravvissuto a numerosi campi di concentramento e di lavoro. Tutta la mia famiglia fu però uccisa in quello di Belzec. Sapevo che dovevo sopravvivere per uno scopo: all’inizio era salvare i bambini ebrei sfollati i cui genitori erano stati assassinati dai nazisti, poi consegnare alla giustizia i capi nazisti che avevo incontrato. In un senso più ampio, ciò ha significato vivere con uno scopo, un significato e una spinta per contribuire alla costruzione di un mondo migliore.

Con la sua famiglia, l’intero mondo ebraico dell’Europa orientale è stato cancellato dalla Shoah. Quali i ricordi della vita nello shtetl polacco dove è nato?
Come racconto anche grazie a molti dettagli nel mio libro, si trattava di una vita meravigliosa e tranquilla. Studiavamo, giocavamo, cantavamo, mangiavamo e celebravamo sempre lo shabbat e tutte le altre feste. Non eravamo ricchi. Non eravamo poveri. Andava bene. Eravamo felici.

A guerra finita si è trasformato in un «cacciatore di nazisti». Come andarono le cose?
L’anno successivo alla liberazione ho cercato prima i bambini ebrei nascosti e poi i principali nazisti con cui ero entrato in contatto lavorando con i soldati Alleati, inizialmente in Austria. Parlavo bene tedesco, stavo imparando l’inglese e me la cavavo abbastanza con il russo, così mi proposi per la traduzione di documenti. Poi sottoposi agli americani una lista di SS di cui ero stato vittima nei vari lager, erano dei nazisti noti e ricercati: avevamo un obiettivo comune, rintracciarli.

In questo contesto ha contribuito a trovare Amon Göth che celava la propria vera identità. È stata fatta giustizia per la Shoah?
Solo in parte. Nessuna punizione può rendere giustizia a un tale male compiuto da uomini che impiegano il loro libero arbitrio per comportarsi come dei onnipotenti con la vita e la morte nelle loro sadiche mani. Göth era un personaggio malvagio ma consegnarlo alla Legge era ciò che andava fatto.

All’inizio del suo libro spiega di essere tornato dopo ottant’anni a Bełzec, dove nel 1942 erano stati uccisi alcuni dei suoi famigliari e buona parte degli abitanti del paesino da cui veniva. Cosa ha provato quel giorno?
Ero accompagnato dal rabbino Naftali Schiff, il fondatore di JRoots, cui si deve in gran parte la mia decisione di raccontare questa storia. Mi ha convinto a tornare indietro. E posso dirle che mescolato alla profonda tristezza per mia madre e la mia famiglia, tutti sterminati in quel luogo, ho sentito anche l’orgoglio per essere accompagnato da un gruppo di giovani studenti ebrei che incarnano il fatto che malgrado Hitler abbia distrutto tanti Paesi e tante vite, non è riuscito a distruggere il popolo ebraico come voleva. Questi giovani mi danno speranza per il futuro. Vogliono sapere. Sono la mia speranza per tutta l’umanità.

Nel libro scrive: «Non vorrei ricordare, ma devo…». Qual è ancora oggi per lei il significato di questo «dovere della memoria»?
Prima di tutto, devo impegnarmi perché momenti e iniziative come quella in cui sono impegnato non scompaiano mai: il «dovere» di parlare e raccontare la mia storia a quante più persone possibili affinché diventino a loro volta testimoni della mia memoria. Per quanto possibile, ho cercato di collaborare con JRoots per far conoscere la mia storia attraverso il libro, ma anche con un documentario, per far sì che la mia testimonianza non venga dimenticata. Poi si deve far fronte alle sfide reali poste dalle fake news e dal modo in cui si falsificano le cose sui social media. Dobbiamo educare i giovani a conoscere la differenza tra vero e falso, giusto e sbagliato – e questo è un problema ancor più grande della negazione dell’Olocausto. L’Occidente sembra purtroppo essere cieco di fronte a questo. E spero che il mondo si svegli rapidamente per affrontare questa nuova realtà, come tutte le forme di antisemitismo. Prima che sia troppo tardi.

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