Ieri, mentre Boris Johnson – primo leader occidentale a farlo – arringava il parlamento ucraino esortandolo alla «vittoria» ben protetto da quell’appartamento al numero dieci di Downing Street dal quale inspiegabilmente vogliono sfrattarlo, la sua contestata ministra dell’Interno Priti Patel veniva bacchettata dall’ambasciatore ucraino in Gran Bretagna sulla tragica lentezza dell’accoglienza dei profughi. Johnson ha promesso al paese invaso aiuti in armamenti per 300 milioni di sterline, da sommarsi ai 33 miliardi di dollari già stanziati da Joe Biden. Poi, però, quando si tratta di aprir agli ucraini le porte della città, la britannica abnegazione improvvisamente recede. Tanto da spingere l’ambasciatore, Vadym Prystaiko, a chiedere alla ministra di eliminare i lacci e lacciuoli burocratici che finora hanno rallentato la procedura di accoglienza e di asilo per centinaia di profughi ucraini bloccati a Calais da poco dopo l’inizio della guerra, il cosiddetto programma Homes for Ukraine. Che si trova impantanato in cronici ritardi, aggravati dalla stessa Patel che ha approvato molti visti senza notificarne i candidati prescelti (laddove nell’Ue, lo ricordiamo, i profughi si possono spostare senza).

A Londra, come ovunque, le armi costano meno dei letti. Dei 74.700 ucraini che hanno presentato domanda nell’ambito del percorso di sponsorizzazione è arrivato in Gran Bretagna solo il 15%, secondo dati governativi pubblicati dal Guardian. Sarebbero finora 59.000 le persone con l’approvazione del visto che non sono ancora arrivate nel Regno Unito per mancata notifica di detta approvazione. Ad avviare procedimenti legali per conto di “molte centinaia” di ucraini, in un contenzioso organizzato dai membri dei gruppi Vigil for Visas e Taking Action Over the Homes for Ukraine Visa Delays, sarà Amanda Jones, un’avvocata in materia di immigrazione e diritto pubblico.

Un pastrocchio, questo dell’accoglienza, che ha visto ancora una volta il balbettante Occidente colonial-democratico – anche in questa sua fase crepuscolare saldamente capitanato dal “duopolio” angloamericano – applicare i suoi ben collaudati, multipli standard morali alle vittime delle guerre di cui è causa diretta (o indiretta). Nel suo discorso ai parlamentari ucraini Johnson ha saccheggiato l’ormai consunto dizionarietto churchilliano mescolandolo a sceneggiature della filmografia propagandistica sulla seconda guerra mondiale. Con lo scopo di ritagliarsi una noterella a piè di pagina nella coraggiosa quanto disperata resistenza ucraina, mentre il paese letteralmente finisce – termina – sotto i bombardamenti russi.

Questa è naturalmente the finest hour per gli ucraini, il loro momento migliore, ha detto Johnson: naturalmente questi «vinceranno» l’assedio del vicino dozzine di volte più vasto e potente, così come la Gran Bretagna resistette all’offensiva hitleriana. Ma si sa, dalla propria poltrona/seggio/trono il coraggio è un’esperienza inebriante, l’irresistibile gioco di simulazione in una realtà dominata dal gaming. Poi però, anche se sono biondi e cristiani, – «middle class come noi», come ha detto un leggendario giornalista televisivo ormai settimane fa – all’atto pratico ecco ogni sorta di problemi a farli sbarcare.

Troppo forti e radicate la retorica e la pratica dell’hostile environment concepito ormai anni fa da Theresa May; e troppo forte il fattore Brexit, che permette al Regno Unito di richiedere agli ucraini di sottoporsi a una lunga procedura di visto prima di poter viaggiare. Brexit è nata soprattutto per tenere gli europei dell’est fuori dai confini britannici: e per quanto l’essere a ovest di qualcun altro ti renda “occidentale” è normale che l’eccezione ucraina stenti ad essere applicata.

Schiacciata tra profughi bianchi e profughi neri, Patel fa quello che può, tenendo anche conto della contestatissima policy presentata giorni fa di deportazione dei profughi – rigorosamente non biondi e non cristiani – nel Ruanda, attaccata perfino dall’arcivescovo di Caterbury, Justin Welby.

Quanto al premier britannico, ormai da mesi potenzialmente uscente per un multiforme assortimento di nefandezze – dalle feste sotto lockdown per pochi non eletti, ai rigagnoli di maleodorante sessismo che scorrono tra gli scranni di Westminster – appare chiara una cosa: se saprà infliggere ai suoi concittadini e al mondo intero altri mesi di premierato, il merito è tutto del Cremlino.