John Carlos, perché correre in Messico
Pagine di sport Sono passati cinquantacinque anni dal 16 ottobre 1968, quando Smith e Carlos coi piedi scalzi, simbolo della povertà e della schiavitù, e a capo chino, alzarono il pugno chiuso alle note dell’inno americano, rifiutando di celebrare una bandiera basata sull’oppressione e lo sfruttamento: esce in italiano l'«Autobiografia di una leggenda», scritta da John Carlos, edita da DeriveApprodi
Pagine di sport Sono passati cinquantacinque anni dal 16 ottobre 1968, quando Smith e Carlos coi piedi scalzi, simbolo della povertà e della schiavitù, e a capo chino, alzarono il pugno chiuso alle note dell’inno americano, rifiutando di celebrare una bandiera basata sull’oppressione e lo sfruttamento: esce in italiano l'«Autobiografia di una leggenda», scritta da John Carlos, edita da DeriveApprodi
Due pugni chiusi guantati di nero in alto verso il cielo. Foto simbolica del XX secolo, quando sembrava che il sogno dell’uguaglianza fosse a portata di mano. L’immagine indelebile del podio olimpico dei 200 metri, il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos, due atleti afroamericani che si richiamano alle Pantere Nere e alle lotte urbane razziali in quelle Olimpiadi di Mexico City del 1968, anno segnato dell’assassinio di Martin Luther King, di Bob Kennedy e dalla strage degli studenti messicani in rivolta a Piazza delle Tre Culture dieci giorni prima. La loro azione nonviolenta alla premiazione (Smith finì primo, vinse l’oro stabilendo il record del mondo con 19”83 davanti all’australiano Peter Norman, argento, che si attaccò sul petto una spilla pro diritti umani per mostrare la sua solidarietà mentre Carlos fu terzo, medaglia di bronzo) voleva riscattare il popolo nero, trattato da essere inferiore e discriminato nel paese più ricco del mondo. Why run in Mexico and crawl at home (Perchè correre in Messico e strisciare a casa) ero uno degli slogan d’allora, di quella battaglia nata come «Progetto olimpico per i diritti umani», con molte riunioni tra gli atleti.
Sono passati cinquantacinque anni da quel 16 ottobre, quando Smith e Carlos coi piedi scalzi, simbolo della povertà e della schiavitù, e a capo chino, alzarono il pugno chiuso alle note dell’inno americano, rifiutando di celebrare una bandiera basata sull’oppressione e lo sfruttamento. Nel frattempo loro sono diventati due simboli universali della protesta pacifica per i diritti civili. E hanno raccontato soprattutto la vendetta della società bianca statunitense con la tempesta di insulti, discriminazioni e boicottaggi che li travolse al ritorno a casa.
Adesso, per la prima volta in italiano, arriva la versione di John Carlos, Autobiografia di una leggenda I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo (Derive Approdi, pg.192, euro 18), scritta nel 2012 mentre Tommie Smith aveva pubblicato il suo racconto, Silent Gesture, nel 2008.
La confessione intima e appassionante di John Carlos parte dal suo luogo natìo, Harlem, il quartiere nero di Manhattan, dove lui è giunto sulla terra il 15 giugno 1945, il suo indirizzo – 626 di Lenox Avenue – era a pochi passi tra la Savoy Ballroom e il Cotton Club, due rinomati templi musicali con ballerini e artisti di qualità. Figlio di un ciabattino e di un’infermiera, andava male a scuola per la dislessia però già correva a perdifiato per evitare i bulli e la polizia e sognava di emulare Robin Hood, andando a rubare con la sua banda di adolescenti dai treni merci nella stazione vicina e distribuendo il bottino, cibo e vestiti, tra le famiglie meno abbienti. La solidarietà nella comunità nera e la sfida all’autorità erano nell’aria in quegli anni di battaglie per i diritti civili, di speranze per la libertà. Allo stesso modo era affascinato dall’oratoria e dal carisma di Malcolm X che seguiva regolarmente nelle conferenze e conobbe pure Martin Luther King, poco prima del suo viaggio a Memphis.
John continuava a cullare il desiderio di entrare nella squadra olimpica e vincere una medaglia ma aveva dovuto fare i conti con la dura realtà. Pensava di essere un buon nuotatore ma non c’erano piscine pubbliche dove allenarsi e quelle private costavano troppo e poi c’era un handicap pesante: aveva la pelle nera, così gli fece notare il padre Earl. Non c’erano afroamericani nella nazionale di nuoto Usa. Fortunatamente due poliziotti svegli lo portarono al Pioneer Club, una delle società migliori di atletica leggera di New York. E da allora la carriera del ragazzino che scappava velocissimo s’incanalò verso le prime gare giovanili, le prime vittorie importanti e gli allenamenti mirati. «Quando mi è stata consegnata la prima tuta ufficiale in cotone di alta qualità, ho preso un pennarello per scrivere una J e una C su ogni metà del didietro. Indossavo la tuta durante il riscaldamento e sfrecciavo davanti agli avversari in modo che si ricordassero di quelle lettere: J, C, J, C, J, C, J, C. Tutti volevano sapere chi diavolo è questo JC: pensa di essere Gesù Cristo? E io rispondevo: ‘Quasi. Ma sono solo John Carlos”.
Il giorno prima della finale dei 200, la moglie di Smith comprò un paio di guanti che i due velocisti si divisero, prima di salire sul podio. Il clima di quei giorni era molto teso, la protesta dei campus americani era in pieno fervore. Quando partirono le note dell’inno americano, i due sprinter abbassarono la testa e alzarono il pugno chiuso, il simbolo storico della lotta proletaria, dalla guerra civile spagnola in poi.
I due atleti furono immediatamente puniti per il loro gesto, espulsi dalla squadra, dovettero lasciare il villaggio olimpico (anche se pure il loro amico Lee Evans, medaglia d’oro dei 400 metri, si presentò col basco nero e a piedi scalzi, alla premiazione). Da allora l’opinione pubblica statunitense disse che avevano disonorato il paese, facendogli il vuoto attorno. «Io vinsi delle gare di velocità ma poi dovetti accettare di lavorare come addetto alla sicurezza in un locale notturno per racimolare un po’ di soldi e poi per un anno e mezzo giocai a football per i Philadelphia Eagles prima di un grave infortunio al ginocchio». Per tanti anni le ristrettezze economiche (e le scarse occasioni di lavoro) spinsero la moglie Kim prima a separarsi e poi a uccidersi nel 1977. E solo negli anni ’90 Carlos ha cominciato a impegnarsi come consulente prima a Palm Springs poi alla San Jose State University, la squadra per cui avevano corso in gioventù.
Ma la sua fama attraversa le generazioni tanto che gli studenti di San Jose hanno fatto una colletta per costruire una statua nel campus ai due velocisti, una scultura colossale con uno spazio libero tra Smith e Carlos per le foto celebrative.
John Carlos è stato un uomo normale, un afroamericano che si è trovato a dover scegliere da che parte stare. Ha seguito la sua coscienza e gli insegnamenti familiari agendo con orgoglio e dignità. Ha pagato un prezzo altissimo per le sue convinzioni, diventando un modello di comportamento per gli attivisti in ogni parte del mondo. «In questo momento, un giovane uomo mi sta fissando, sorridendo. Si avvicina a me, con un po’ di barba sul mento, un luccichio negli occhi e un mezzo sorriso. Niente ciao. Niente come stai. So cosa sta per succedere perché è successo troppe volte per poterle contare. Lancia il pugno in aria, china la testa e dice: ‘Dovevo proprio farlo’. Poi se ne va. Nessuna richiesta di autografo. Nessun ‘buongiorno, signor Carlos». Quel pugno scagliato in alto è una richiesta di consapevolezza, di libertà, d’indipendenza. Vuol dire «ce la possiamo fare, prima o poi ce le faremo».
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