La riconosci da un piccolo altoparlante montato sul tetto la para-jamaat di Husein “Bilal” Bosnic. Nascosta da un campo di mais, al bivio per Sisici, nord della Bosnia. Una casa adibita a moschea per diffondere il verbo più radicale dell’Islam, il salafismo. Dai boschi ai campi di battaglia per combattere gli infedeli e instaurare la sharia, andava predicando uno dei più grandi reclutatori di jihadisti in Europa. Un raggio d’azione, quello di Bosnic, che si estendeva dalla Svezia alla Slovenia passando per l’Italia, ma che aveva radici qui, a Sisici: una serie di curve appena e sei in Croazia, Unione europea.

DA FUORI non lo diresti che quello è uno dei centri di radicalizzazione più significativi in tutto il Paese. Molto più che non le comunità salafite della Bosnia centro-orientale, insediatesi alla fine della guerra negli anni Novanta. Allora due-tremila mujaheddin arrivarono da Afghanistan, Medio Oriente e Nord Africa in Bosnia Erzegovina per combattere la guerra santa. Fallito l’obiettivo di instaurare la legge islamica alcuni di loro, poche centinaia, decisero comunque di restare nel Paese. Comunità isolate, ma visibili, più semplici da monitorare nonostante la loro impenetrabilità. Un esempio per tutti, Gornja Maoca che con le sue bandiere nere dell’Isis esposte alle finestre, è divenuta il simbolo del jihadismo bosniaco.

LONTANO dai riflettori, invece, i da’is, i predicatori d’odio spesso formatisi in Arabia Saudita, agiscono indisturbati. Centri nevralgici del loro proselitismo le para-jamaat, abitazioni private o strutture fuori dai circuiti della Comunità islamica di Bosnia. Bubboni proliferati alle periferie dei centri urbani, da Sarajevo, a Tuzla, a Zenica, a Bihac. Un’organizzazione informale, di basso livello, ma radicata sul territorio e strutturata in una rete che coinvolge anche attività commerciali e onlus di dubbia provenienza e altrettanto dubbi finanziamenti. Un’organizzazione non riconosciuta dalla Comunità islamica, ma in parte tollerata e considerata come punto di raccordo con realtà ancor meno ufficiose.

«Si muovono senza dare nell’occhio. Non devono nascondersi solo dalla polizia, ma anche da noi che viviamo qui e che non tolleriamo la loro presenza né il loro pensiero» spiega Tarik (nome di fantasia), un uomo del posto che mi accompagna in questo viaggio. Tarik ha il terrore di vedere rivelata la sua identità. Perché lui, musulmano, è sposato a una donna cattolica e tanto basta a renderlo un infedele agli occhi dei duri e puri dell’Islam.

«ALCUNI di loro si sono radicalizzati negli anni della guerra, racconta Tarik. Ho visto amici e familiari reagire in questo modo alle atrocità subite». Insomma, un lascito avvelenato del conflitto nutrito dalle divisioni etniche emerse dalla guerra e dalla disfunzionalità dello Stato che ne derivava. Un lascito su cui le istituzioni oltre che la Comunità islamica hanno spesso chiuso un occhio. Almeno fino all’11 settembre, quando è parsa chiara la pericolosità della serpe che anche la Bosnia stava allevando in seno.

DA ALLORA un atteggiamento più guardingo e meno ambiguo ha scongiurato il peggio. La Bosnia non è mai divenuta in questi anni una «bomba ad orologeria» come l’ha definita lo scorso novembre il presidente francese Emmanuel Macron suscitando l’ira dei bosniaci e il plauso dei nazionalisti serbi e croati. Al contrario, il radicalismo islamico, specie quello violento, ha fatto fatica ad affermarsi tra la popolazione locale.

EPPURE l’insorgere di una nuova generazione di musulmani radicalizzati che poco o nulla ha a che fare con la guerra, non è un fattore da sottovalutare. Basta un colpo d’occhio a Velika Kladusa per rendersene conto. La piazza antistante la moschea è gremita di fedeli prima della preghiera del venerdì. Barbe lunghe gli uomini, veli integrali le donne. Scene non ordinarie, ma sempre più evidenti nella Bosnia del dopo Dayton. Impossibile avvicinarli, asserragliati come sono dietro un muro di silenzio.

A Sefik Cufurovic manca tutto invece meno che le parole. Traboccano di odio per quello che un tempo era il figlio prediletto, Ibro. «Ho pregato Dio di non vederlo mai più. Speravo in cuor mio che una granata lo cogliesse in pieno», attacca Sefik, lo sguardo mite e rassegnato di chi dalla vita non ha più nulla da perdere.

PER LUI IBRO è morto una mattina di otto fa. Quel giorno il più giovane dei suoi figli aveva raccolto pochi stracci ed era andato via. Ad aspettarlo fuori dalla porta ancora lui, Bilal Bosnic. L’uomo della provvidenza, quello che ti offre pane e ideologia, scuola e medicine, insinuandosi nelle crepe di uno Stato sociale e politico al collasso. Così Ibro era caduto nella rete del predicatore islamico. Con sé aveva trascinato anche sua madre, ma non Sefik, il padre infedele, come gli aveva urlato una volta Ibro.
Da allora la famiglia Cufurovic è andata in frantumi. «Non è una questione di povertà, prosegue Sefik. Bosnic ha distrutto tante famiglie qui, nei dintorni, alcune di queste benestanti». Il riferimento è a Rifet Sabic, uno dei testimoni chiave insieme a Sefik nel processo contro il predicatore islamico. Come Ibro, anche Suad, figlio di Rifet, era partito in Siria per combattere nelle fila dell’Isis, ma Suad dalla Siria non tornerà mai più.

«FU MIO FIGLIO Scerif a dirmi che Ibro si era arruolato. È stato quattro anni fa. Alcuni funzionari del Sipa (agenzia di intelligence bosniaca, ndr) si presentarono a casa mia per mostrarmi un video. C’era un uomo con un kalashnikov in mano e ai piedi due uomini ammazzati. Era lui, mio figlio». Nel marzo di quest’anno Ibro è stato espulso dalla Siria dove era detenuto in un campo gestito dalle milizie curde. Al rientro in Bosnia è stato processato per attività terroristica e condannato a quattro anni di carcere. E mentre i giudici emettevano la sentenza, sua moglie e i suoi figli tornavano in Bosnia con un programma di rimpatri che suscita non poche perplessità.

Lo scorso dicembre un primo gruppo di bosniaci è rientrato dalla Siria. Sei donne, dodici bambini e sette uomini, questi ultimi arrestati al loro arrivo in aeroporto a Sarajevo. L’operazione era slittata di qualche mese per l’offensiva scatenata dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan nel nord della Siria. Qui un centinaio di bosniaci attende di essere rimpatriato nei campi di prigionia gestiti dalle milizie curde.

«IL CONTRASTO al terrorismo non rappresenta per la Bosnia-Erzegovina una priorità come lo è ad esempio per altri Stati europei, spiega Evan Kohlmann, esperto ed ex consulente americano in materia di terrorismo per l’Fbi. A complicare il quadro poi vi sono delle fragilità a livello istituzionale, delle lacune normative e delle inadeguatezze nella conduzione delle indagini o nello svolgimento dei processi. Basti pensare che i reclutatori e i foreign fighter che in questi anni sono stati condannati, riuscivano comunque a comunicare all’esterno e proseguire le loro attività dal carcere». ù

INSOMMA, nessuna strategia contro il terrorismo è possibile se prima non si lavora al consolidamento delle istituzioni. Istituzioni deboli che riflettono la precarietà degli accordi di pace di Dayton e la retorica nazionalista di cui è intrisa la narrazione politica. C’è poi un fattore secondo Kolhmann che spesso viene trascurato ma che è sufficiente a rendere la situazione più allarmante, ossia il salto di qualità realizzato sul campo dai foreign fighter. «Quando sono partiti dalla Bosnia, spiega l’esperto, molti di loro non avevano esperienza di guerra. Ora invece sono addestrati e organizzati. Tra questi anche alcune donne hanno partecipato attivamente ai combattimenti, ma in Bosnia non sono mai state né condannate né tantomeno processate».

E SOTTO il profilo riabilitativo le cose non vanno meglio. In teoria per le donne e i bambini il governo ha predisposto dei programmi di reintegrazione nella società che nei fatti però rimangono lettera morta. I finanziamenti dei donatori internazionali, pur copiosi, restano inutilizzati, così che il peso dell’intero processo riabilitativo ricade sulle autorità locali.

SULLA CARTA ad esempio le donne dovrebbero svolgere dei lavori sociali, ma i centri appositi non hanno risorse né personale. Ancor più drammatica la situazione dei bambini, esposti da anni a violenze di ogni tipo e bisognosi di assistenza psicologica, per ora pressoché assente.

E poi c’è la questione del reintegro dei foreign fighter veri e propri e della loro de-radicalizzazione. «Molti di loro, conclude Kholmann, hanno un basso livello di scolarizzazione e hanno per di più poche competenze e soprattutto maturate in guerra. Occorre capire se hanno un’agenda politica e quali sono gli obiettivi che intendono realizzare, l’instaurazione della sharia o la pianificazione di attentati terroristici. Ma la strada da fare è ancora molto lunga».