Storico interprete di cinema, teatro e televisione, in Polonia e non solo, Jerzy Stuhr è noto soprattutto per il suo sodalizio artistico con Krzysztof Kieslowski, per cui ha interpretato, tra gli altri, Decalogo 10 e Tre colori – Film bianco. Intensi sono stati i suoi rapporti con l’Italia, sui palcoscenici come sul grande schermo con Nanni Moretti, che lo ha voluto in Il caimano, Habemus Papam e nell’ultimo Il sol dell’avvenire. Da lui, in particolare da Caro diario, Stuhr ha preso l’approccio autobiografico del suo cinema da regista, che risente moltissimo anche dei temi di Kieslowski del caso e delle «sliding doors». Solo uno dei film da lui diretti, Storie d’amore, è uscito in Italia dopo la presentazione in concorso a Venezia nel 1997. Di recente ha interpretato anche Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito.

Abbiamo incontrato Jerzy Stuhr durante l’ultimo Bergamo Film Meeting che gli ha dedicato una retrospettiva. Il suo primo film da regista, Spis cudzoloznic (L’elenco delle adultere), racconta di un professore universitario di Cracovia che è incaricato dall’ateneo di accogliere un accademico svedese in visita. Questo si rivelerà più interessato alle bellezze femminili locali. All’inizio il protagonista mostra all’ospite una piazza della città teatro di manifestazioni anticomuniste.

Il film è del 1994, non tanti anni dopo la fine dell’era sovietica. Volevi dare un segno delle cicatrici di un passato appena concluso?
Il film è tratto da un romanzo di Jerzy Pilch, ed è un film sull’atmosfera di Cracovia e dell’ambiente universitario degli studi di filologia polacca. Conoscevo bene il profumo di quelle sale, dove avevo studiato, mentre l’autore del libro aveva cominciato gli stessi corsi cinque anni dopo di me. Avevamo la consapevolezza, negli anni in cui è stato realizzato il film, della fine di un’epoca. Tutto era finito. Il comunismo era passato e c’era uno spazio vuoto da riscrivere. Una nuova storia. Un’altra pagina della nostra vita. Ho potuto avere i finanziamenti per il film proprio per il nuovo corso del paese. Anche quell’atmosfera libertina rifletteva una nuova epoca. Il film è un viaggio sentimentale. Lo amo molto, è un diario intimo della mia gioventù, dei miei studi, all’età di 24-26 anni. Al primo anno eravamo 16 ragazzi mentre le studentesse erano 220. Alcune sono ora colleghe del mio corso. Scherzando con Jerzy Pilch, dicevo che potremmo aver frequentato le stesse ragazze in anni diversi.

Nel tuo ultimo film, «Obywatel»(Il cittadino) del 2014, percepisco invece una grande disillusione. Il protagonista è un uomo politico contemporaneo che si professa cattolico solo per opportunismo. Attraverso la storia della sua vita precedente ripercorri la storia del paese. Cosa volevi rappresentare?
Rientra in una nostra tradizione poetica, cinematografica come letteraria, di verificare la nostra storia. Non solo lodare, glorificare. Ed è una visione molto amara. Il nostro grande regista Andrzej Munk nel suo film Zezowate szczescie (Fortuna strabica), del 1960, con il grande Bogumil Kobiela che avrebbe fatto Cenere e diamanti con Wajda, mostra per la prima volta un personaggio che non è eroe ma una persona normale: voleva solo vivere, sopravvivere. Il mio film Il cittadino segue questa poetica. Il protagonista non è un opportunista ma si deve arrangiare come milioni di polacchi. In Polonia il film è stato molto criticato, visto come un’offesa. È stato più apprezzato all’estero.

C’è una battuta del protagonista di «Il cittadino», da giovane, che riguarda il sindacato Solidarnosc, che dice: «Non sono né con questa Polonia né con l’altra». Cosa significa? E qual è il tuo giudizio su Solidarnosc, rievocato in tanti dei tuoi ultimi film?
La sua battuta è come dire: «Vi aiuto ma non mi piace partecipare a Solidarnosc»: l’atteggiamento di milioni di cittadini polacchi. Quanti erano in Solidarnosc? Nove milioni all’inizio. E poi? All’inizio c’era entusiasmo. Ma poi bisogna lavorare e non solo fare proclami. Perché altrimenti la maggior parte della gente si disinteressa e pensa solo a sopravvivere. La mia visione è amara. C’è un’abitudine dai tempi del comunismo: l’inazione, non immischiarsi. Mia madre e mia nonna mi dicevano di non immischiarmi. Di stare calmo. Io avevo tanti problemi perché mio padre era procuratore durante il comunismo. Era uno dei tre o quattro, in tutta la Polonia, procuratori a non essere iscritto al Partito.

Nel tuo film «Korowód» (Girotondo), del 2007, il ragazzo protagonista all’inizio è visto su un treno con la sua tesi di laurea su Tadeusz Rózewicz, il grande intellettuale polacco. Voleva essere un omaggio?
Un omaggio e un elemento autobiografico perché io ho scritto la tesi in filologia polacca proprio sul grande poeta e drammaturgo Tadeusz Rózewicz. Ho allestito tre o quattro volte le sue opere in teatro. In Polonia lui è più popolare come poeta. Come drammaturgo è stato il primo a liberare il teatro dalla disciplina neorealistica. Uno dei suoi drammi più importanti, Kartoteka, è fatto di episodi antirealistici. Lui è stato fondamentale.

Parlando della scena teatrale polacca, sembra paradossale che con Jerzy Grotowski vi siate incontrati in Italia, nel suo Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Com’è stato l’incontro, considerando le vostre differenze nella concezione della recitazione?
Ricordo che Harold Pinter, quando ci siamo trovati a Londra per conoscerci prima di lavorare insieme, mi chiese: «Lei non sarà mica uno di questi grotowskiani?». «Assolutamente no», risposi. «Allora sto tranquillo», ribatté lui. Grotowski veniva dalla mia stessa scuola di teatro di Cracovia, che frequentò negli anni Cinquanta. Nei primi anni Ottanta l’Università di Pisa organizzò un grosso evento sul nostro autore Stanislaw Witkiewicz. Fecero venire i suoi più importanti studiosi dalla Polonia e allestirono anche una mostra. Volevano poi organizzare uno spettacolo con una compagnia mista di attori polacchi e italiani. Si sono rivolti a Pontedera che prese in mano la produzione di quello spettacolo. Volevano che il protagonista fosse un polacco e così chiamarono me. All’epoca volevo provare un’avventura straniera. Era molto interessante esplorare la possibilità di superare a teatro la lingua madre. Da noi non si poteva espatriare così facilmente. Bisognava rivolgersi a un’agenzia per artisti che procurava permesso e passaporto, ma prendendo il 20% di provvigione. Cominciò così la mia avventura italiana. Incontrai poi Giovanni Pampiglione e mi iscrissi al Teatro Stabile di Trieste, e lavorai con il leggendario Mario Scaccia. Era un artista quasi lirico. Lo guardavo affascinato, conosceva questo mestiere benissimo, in una maniera diversa dalla mia.
Quando in Italia scoprirono che ero professore dell’Accademia di Cracovia mi fecero fare iniziative pedagogiche, seminari. Ne ho fatto uno con Marisa Fabbri, di scuola stanislavskijana. Il mio era propedeutico al suo. Facevo questi lavori in Italia, mentre era in corso la legge marziale in Polonia.

A Cracovia lavorava anche l’altro grande nome del teatro d’avanguardia, ovvero Tadeusz Kantor. Vi conoscevate? Che rapporto avevate?
Con lui era un litigio continuo, perché io facevo parte di un famoso e vecchio, teatro stabile, dove lavoravano Wajda e Kieslowski. Accanto c’era Kantor con la sua compagnia Cricot 2, cui partecipavano anche dei nostri attori. Lottava tantissimo. Ci chiamava schiavi. Con i nostri colleghi del Cricot 2 ci trovavamo di nascosto di notte a bere vodka per non farci vedere da lui. Ci trovavamo insieme in tanti festival teatrali del mondo. Una volta eravamo a un festival in Argentina, mi pare, ed eravamo in piscina, in costume da bagno, noi e gli attori di Kantor. A un certo punto lui uscì dall’albergo, tutto in nero, abito nero, cravatta nera, si diresse verso di noi, ordinando ai suoi attori di andarsene. Non potevano abbronzarsi, dovevano essere sempre pallidi, cadaverici.