Jerzy Skolimowski, il cinema cocciuto come un mulo
Intervista Il regista polacco ritorna sulle origini del suo lavoro, che hanno molto a che fare con il suo ultimo film, «E/O», del 2022, remake da Robert Bresson, in cui si seguono le avventurose vicende di un asino
Intervista Il regista polacco ritorna sulle origini del suo lavoro, che hanno molto a che fare con il suo ultimo film, «E/O», del 2022, remake da Robert Bresson, in cui si seguono le avventurose vicende di un asino
A un anno dal suo magnifico EO, remake ultramoderno di Au hasard Balthazar di Robert Bresson, presentato nell’ambito del CiakPolska Film Festival organizzato dall’Istituto polacco di Roma (nella persona di Lorenzo Costantino) al Cinema Troisi, avviciniamo il grande artista apolide polacco che esordì scrivendo per Wajda e Polanski per chiedergli di parlarci del suo cinema, così essenziale, così di cuore, così pulsante, così raro.
Dai tuoi inizi sei stato uno degli inventori del cinema moderno in Europa, in un tempo dove ovunque nel mondo, dal Brasile al Giappone, la tua generazione ha contribuito molto nel portare una certa modernità nel cinema. Mi domando, poiché hai mantenuto quel modo di lavorare attraverso quella modernità, e tu sei uno degli esempi migliori di questo, e poiché la realtà è cambiata attorno a noi, rispetto agli anni ’60 per esempio, qual è il dialogo possibile tra il tuo lavoro, il tuo modo di lavorare, non solo come cineasta ma anche come scrittore e pittore, e la realtà nella quale vivivamo oggi.
Beh sai, come per ogni artista, la vita è strettamente connessa con il lavoro e la realtà in cui viviamo e viceversa. Ho attraversato diversi periodi della mia vita e del mio lavoro – oltre che regista sono anche pittore – ed è facile vedere lo sviluppo della mia cosiddetta carriera, specie quella di pittore, perché ci sono gli anni delle pitture realiste, gli anni delle pitture astratte, puoi vedere i cambiamenti, i ritorni e il mescolamento.
Ed è la stessa cosa per i film che ho fatto. Per esempio, eventi piuttosto importanti che hanno determinato il mio modo di fare film sono legati al fatto che sono stato espulso dalla Polonia dopo aver fatto Mani in alto! (nel 1967, bloccato dalla censura fino al 1981). Un film fortemente politico, un manifesto dell’anti-stalinismo, che c’era ancora al tempo in Polonia, anche se ufficialmente non era politicamente così visibile, ma penso che nella testa delle persone ci fossero ancora gli effetti profondi della fenomenale propaganda e dell’educazione di tipo sovietico ricevuta per decenni. Ho fatto quel film e in pratica mi ha rovinato la vita.
Il film fu bloccato dalla censura, volevano che tagliassi le scene più importanti, cosa che rifiutai di fare, e mi dissero che il film allora non sarebbe mai stato mostrato in Polonia o in qualsiasi altra parte del mondo. Io dissi che era questo tipo di film che mi interessava fare e mi risposero che avrei dovuto trovare un altro luogo per fare questo tipo di affermazioni politiche. E sono stato espulso.
Quindi ho lasciato il mio paese, e dopo un po’ di vagabondaggio per l’Europa sono finito in Inghilterra, per niente preparato a fare film in inglese, lingua che al tempo parlavo a malapena, senza un soldo, senza relazioni, senza un posto dove vivere con la mia famiglia (io, mia moglie e i nostri due figli piccoli riuscivamo a malapena a mangiare!), e in quelle condizioni, dopo qualche anno, sono riuscito a fare un film, Moonlighting (era il 1982).
Che è un film molto inglese! Come lo era già «Deep End» del resto…
Si, è vero! Sono stato fortunato, ci sono state alcune coincidenze fortunate, per esempio il fatto che Jeremy Irons fosse all’epoca l’attore numero uno in Inghilterra, e per caso aveva visto il mio primo film (Mani in alto!) che gli piacque molto. Quando l’ho avvicinato, senza conoscerlo personalmente, gli chiesi se avesse il tempo di girare un mio film e mi disse subito sì.
E quella fu la chiave che aprì la porta a finanziamenti e altre necessità del film. Ma non è stato facile, sai, davvero non avevo nessun retroterra che potesse aiutarmi, solo la fortuna di aver avvicinato la persona giusta in quel momento. Questo è il miglior esempio di risposta che posso darti, cioè di come la vita e il lavoro si connettono e interferiscono l’un l’altro nella realtà.
Quando ho visto «EO» mi ha fatto pensare a «Mani in alto!», quello che lì era lo Stalinismo, ora è il Capitalismo, perché la distruzione umana, di una certa umanità, per me è data dall’economia in cui viviamo. Mi domando se è un parallelo – anche rispetto ai due diversi tipi di propaganda – a cui hai pensato…
Penso che la migliore interpretazione, in generale, sia legata alla nostra personalità. Il modo in cui io mi avvicino al soggetto, il modo in cui cerco di guardare cosa c’è sullo sfondo e cosa c’è in primo piano, a tutti i livelli, qualunque sia il soggetto, è sempre connesso a questo mio approccio personale, che è simile in tutti i miei film. Probabilmente è la stessa lotta emozionale col soggetto che intraprendo, se così si può dire.
Come mai hai scelto di rifare proprio «Au hasard Balthazar?»
Nel 1964, mi ero appena laureato alla scuola di cinema di Lodz. Da studente sono riuscito a portare a termine un lungometraggio (Rysopis – Segni particolari: nessuno) che era composto dai girati che avevo fatto nei 4 anni della scuola. Grazie a questo mi è stato proposto immediatamente dopo il diploma (cosa abbastanza inaudita all’epoca) di produrre il mio primo film. Ho scritto al volo un soggetto e ho iniziato a girare. Il film alla fine è uscito, nel 1967, in poche copie, e poiché era un film sperimentale passava nei cineclub. Un giorno, era l’autunno, squilla il telefono di casa e dall’altra parte mi dicono essere i Cahiers du cinéma. Io come prima reazione ho pensato si trattasse di uno scherzo di qualche amico, di qualche compagno della scuola di cinema, ma erano davvero loro e volevano fare un’intervista con me. Mi chiedevo come fosse possibile che i Cahiers volessero intervistare me che ero un esordiente e il mio film non aveva circolato granché. Mi dissero che un appassionato di cinema, un francese, aveva visto in Polonia il mio film, Walkover, e aveva comprato una delle copie che erano in circolazione. Lo aveva sottotitolato e lo aveva messo in programmazione nel suo cinema nel XIV arrondissement a Parigi.
Il caso volle che Jean-Luc Godard vide il film in quella sala, e il giorno dopo convinse Truffaut a vederlo, e così in pochi giorni tutta la redazione dei Cahiers vide Walkover in quella sala. Era il periodo dell’anno in cui sulla rivista uscivano le classifiche dei migliori film proiettati in Francia. Ed era quello che cercava di farmi capire al telefono la segretaria dei Cahiers du Cinéma, cioè che la richiesta di fare l’intervista era dovuta al fatto che il mio film si era piazzato al secondo posto tra i migliori film dell’anno. Dopo un mio iniziale silenzio – non sapevo bene cosa dire! – ho chiesto chi si fosse piazzato al primo posto. E la segretaria mi disse: Au hasard Balthazar di Robert Bresson. Chiesi di fare l’intervista dopo qualche giorno perché volevo vedere il film di Bresson, che non conoscevo. Lo vidi, e quando arrivò la scena finale in cui l’asino muore, per la prima e ultima volta nella mia vita al cinema gli occhi mi si sono riempiti di lacrime e non riuscivo a smettere di piangere. In quel momento pensai che se un regista, in una scena come quella, riesce a provocare nello spettatore un’emozione così profonda, come quella che provai io, l’emozione è dovuta al racconto di una verità, una verità che tocca per primo il regista. Mi son detto che quello fosse il più grande successo che un autore potesse ottenere. Puoi capire perché, dopo cinquant’anni, il ricordo vivo di quella scena e il secondo posto nella lista dei migliori film dei Cahiers dietro quel film, mi hanno portato a rifare Au hasard Balthazar.
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