Nella prima infanzia di Jeroen Brouwers, un evento storico determinò buona parte della sua biografia: era in corso la seconda guerra mondiale, quando le Indie Orientali – colonia olandese destinata a emanciparsi nel giro di pochi anni per confluire nella moderna Indonesia – persero in poche settimane la protezione della madrepatria, ritrovandosi alla mercé della forza occupante giapponese. Brouwers si ritrovò in un campo di concentramento a Giava, l’isola dove era nato nel 1940, e a quella permanenza riandò nello scrivere il suo romanzo più noto, Rosso Decantato.

Il clima dell’epoca, non esente da nostalgismi, indusse molti critici a indagarne soprattutto gli aspetti contenutistici, in nome di una funzione documentaria del romanzo che veniva disattesa o in alcune pagine distorta. Stando al suo principale detrattore, il saggista e poeta  Rudy Kousbroek, Brouwers avrebbe descritto la vita nei campi giapponesi in termini esasperati e inutilmente violenti, mutuati dalla letteratura concentrazionaria al solo scopo di dare scandalo. Dal canto suo, Brouwers non negò che il feroce scenario dell’infanzia gli fosse servito per sceneggiare quella sua ricerca nel proprio sé,  che dopo il lutto per la perdita della madre – unica reduce, insieme a lui, di atrocità e tenerezze ormai lontane e inattingibili – si stava rivelando dilaniante.

Lo scrittore olandese riesumava in quel romanzo i suoi ricordi, alla ricerca di nuovi appigli: peccato fossero inventati, insistevano i detrattori, accanendosi contro l’inaffidabilità del suo racconto.

Eppure Brouwers, scomparso nel 2022, raccolse in età avanzata e proprio a partire da queste polemiche, i riconoscimenti più significativi, fino al prestigioso Libris Literatuur Prijs ottenuto a ottant’anni grazie a un’opera che ne sancì in tutti i sensi l’uscita di scena, Il cliente Busken (traduzione di Claudia Di Palermo e Francesco Panzeri, Iperborea, pp. 256, € 18,00), resoconto finale e massimamente inaffidabile della sua biografia.

Ambientato in una struttura per anziani non autosufficienti, il romanzo espone in prima persona la giornata di Busken, invalido cinico e livoroso, in perpetuo conflitto con il mondo circostante e più che mai con il personale medico, emanazione  di strutture burocratiche ottuse e malevole. Stando alla sua versione, Busken sarebbe stato studioso di latino e anche di robotica, poeta stilnovista e alto funzionario ministeriale; se il rabbioso narratore ci concede di origliare le conversazioni dei suoi assistenti-aguzzini, è solo per contraddirne le infamanti menzogne: una su tutte, la diagnosi di demenza senile a suo carico.

Spinto su una carrozzella dall’infermiera di turno e ormai incapace di gestirsi, si presenta, in realtà, al lettore nella sua impietosa fragilità e totalmente impantanato nel proprio paesaggio mentale. Alterna infatti brevi impressioni sul suo presente di «prigioniero» a variopinte associazioni e reminiscenze, in un incessante monologare che è tutto interiore, essendosi votato – o costretto – a un radicale mutismo.

Il suo monologo è dunque aspro, ma linguisticamente esuberante, frutto di un autentico piacere compositivo, punteggiato com’è di rimbrotti, insulti, odio verso il prossimo. È spassoso, pur non essendo necessariamente la sua comicità a indurci al riso. Sebbene menomato nell’eloquio, Busken riesce comunque a ingannare il lettore grazie a un certo suo gusto teatrale, che ricorda Thomas Bernhard, maestro dell’esagerazione, capace di esporre orrori nosocomiali mantenendo un dissacrante compiacimento. A Busken non resta che infischiarsene della fine sempre più vicina, rabbrividendo però di paura alla sola idea di smarrire il suo «patrimonio linguistico», e di perdere il bandolo che unisce le parole alle cose.

Difficile dire in che misura l’autore condividesse le paure del suo personaggio, e quanto queste non gli servissero, invece, come  strumento per ricalibrare l’introversione dell’io narrante, in una reiterata sperimentazione della forma romanzesca: «C’è qualcosa che si agitannaspa lì, è vero, constata, lo vedo anch’io… Nei secoli trascorsi le donne non potevano recitare all’opera, i ruoli femminili venivano interpretati da uomini agghindati da donne, il che deve aver richiesto al pubblico un grosso sforzo di immedesimazione. Ecco cosa attraversa la selva dei miei pensieri nell’udire una frase così tenera, adatta a un soprano, da interpretare con pathos, uscire dal becco di un tarabuso. Con la fermezza che la contraddistingue raccoglie la bestiolina alata da terra, se la rovescia sul palmo e la rigira nella mia mano…».

Inizialmente, questo passaggio sembrerebbe abbozzare un desiderio di evasione, ma Brouwers ignora ogni coerenza semantica, e mentre propone la metafora della farfallina, non consente tuttavia alla retorica che le è intrinseca il tempo per dispiegarsi.

In un moto linguistico pressoché indomabile, ogni pensiero nasce già proteso verso il successivo, già pronto a mutarsi in altro, dando luogo a una scrittura fatta di balzi, scatti, baluginii, che si compiono in completa solitudine. Non si sa se «il personale accudente» che interrompe il flusso di coscienza di Busken, e tutti coloro che gli ronzano attorno lo sottraggano alla sua confusione o ce lo gettino, se la plachino o la inneschino, un po’ come la folla di un proustiano Bal des têtes. Proprio Proust sembra infatti costituire un riferimento di prima importanza per Brouwers, come lascia intendere il nome che ha scelto per la residenza in cui confina il suo personaggio, Villa Madeleine.

A originare il crollo psicofisico del cliente Busken era stata una brutta caduta domestica, dovuta forse a una sbornia, a partire dalla quale «la memoria involontaria» aveva preso ad agire in maniera produttiva, ma ormai incontrollabile. Nonostante il suo mutismo, le capacità psichiche e linguistiche del narratore non sono affatto mutilate – a venir meno è piuttosto la gerarchia, l’ordine delle operazioni cerebrali. L’afasia di Busken è la condizione perché ciò che risiede nei giacimenti profondi della coscienza non solo affiori, ma finisca per diffondersi in maniera convulsa e polidirezionale.

Nella scelta di come accomiatarsi dal lettore, Jeroen Brouwers si inserisce a pieno titolo nella grande tradizione di lingua nederlandese che, a partire da W. F. Hermans, passando per Hugo Claus, e in tempi recenti per Alfred Birney, ha raccontato i traumi collettivi con gelo e sarcasmo, attraverso lo sguardo allucinato del reduce.

«Non esiste nulla che non tocchi qualcos’altro»: così si apriva Rosso Decantato. Nello stesso intrico senza cesure, qui riappare continuamente a Busken quella farfallina, proprio come una madeleine, descritta ora su una spiaggia indonesiana mentre da presso riecheggia la voce della madre: «Mi sono trasferito in passati così lontani, così remoti, che non ci andavo più. Luoghi imprecisati dentro di me dove pensavo che tutto fosse sprofondato, coperto, sepolto come carne vecchia quanto a breve la mia, ormai non manca più molto. Possiamo provare a disseppellire tutte quelle cosucce con l’ipnosi. Cosucce. Tre sillabe, sette lettere. Il cappellano Vliegenthert m’importuna: Non deve sempre stare a pensare alla morte, signor Busken».