Cultura

Jennifer Pashley e quelle esistenze americane in cerca di redenzione

Jennifer Pashley e quelle esistenze americane in cerca di redenzioneUn’opera del fotografo Christopher McKenney

L'intervista Parla l’autrice del romanzo «Il caravan», pubblicato da Carbonio. Una serie di donne uccise. L’ombra di un crimine seriale. Il legame tra due ragazze nelle campagne del Sud. Un esordio indimenticabile

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 30 agosto 2020

Rayelle e Khaki. Due giovani vite segnate dalla violenza e dall’abbandono. Due ragazze che crescono circondate da un universo ostile, dove la presenza dei maschi è sinonimo di sopraffazione e la famiglia, dove si cercano rifugio e conferme, è invece spesso il luogo più pericoloso. Il primo da cui guardarsi. L’una finirà per cercare conforto nell’alcol e in una lunga serie di «colpi di fulmine» scattati intorno al bancone di un bar, l’altra riuscirà a fuggire ma solo per riversare tutta la rabbia e il risentimento accumulati su altre donne, altrettanto innocenti. Finché la ricerca della verità su una lunga serie di omicidi irrisolti le farà incontrare di nuovo, aprendo la strada a una dolorosa consapevolezza.

Figlie di un Sud rurale, allo stesso tempo selvaggio e meraviglioso, gotico e straniante, Rayelle e Khaki appartengono a quella parte della popolazione bianca e povera che talvolta negli Stati Uniti è descritta con la tragica espressione di «white trash»: intere biografie che di generazione in generazione si compiono in parcheggi per roulotte delle dimensioni di piccole cittadine e vite che non sembrano contare nulla perfino per chi ne è protagonista.

Firmato da Jennifer Pashley, autrice di Syracuse, New York, che si è già fatta conoscere per alcuni racconti pubblicati in raccolte e riviste, oltre la patina della crime story, Il caravan (Carbonio, pp. 330, euro 16,50, traduzione di Anna Mioni) si rivela un romanzo potente che indaga il complesso intreccio delle relazioni umane, le trappole dell’amore e la drammatica realtà di una parte della società americana spesso dimenticata. Un esordio indimenticabile.

Il serial killer protagonista del suo romanzo è una donna, ma è facile scorgere dietro di lei l’ombra del dominio e della violenza maschile, a partire dalla famiglia. È questa una delle chiavi per avvicinarsi al libro?
Sì, sicuramente. Volevo chiarire ai lettori che Khaki è il prodotto del suo ambiente, che esce da un luogo segnato dalla violenza. Il dominio maschile e la violenza l’hanno plasmata sin dall’infanzia. A volte, penso che quel tipo di educazione sia sufficiente per spezzare lo spirito di una ragazza, ma per lei è stato come essere forgiata nel fuoco. Ne è uscita «armata».

[do action=”citazione”]Sono attratta dall’accostamento tra la bellezza della natura e la disperazione dell’estrema povertà, di vite decimate dalla violenza, dall’abuso o dalla dipendenza[/do]

Rispetto alle altre storie che si occupano di omicidi seriali, nel suo romanzo si convive con l’idea che si possa amare chi rischia di ucciderci e che, in fondo, l’amore contiene spesso delle zone oscure nelle quali non è chiaro dove si trovino il bene e il male. Perciò, come trovare la via per la redenzione?
È molto difficile trovare la redenzione. Devi essere a tuo agio anche con l’oscurità e devi mantenere una sorta di fede cieca e la massima fiducia. Gli esseri umani sono incredibilmente vulnerabili, specialmente quando c’è di mezzo l’amore. Quando ero molto piccolo, mio padre ci diceva: «Non sai chi sono veramente». Ovviamente all’epoca prendevo le sue parole come uno scherzo, ma mi hanno anche lasciato addosso la sensazione che potesse essere vero. Non lo sai mai veramente cosa sta accadendo. L’amore, in questo senso, è pericoloso.

«Non si poteva essere liberi finché non si era stati schiavizzati. Non si poteva essere integri finché non ti avevano fatto a pezzi». Nelle parole di Khaki sembra emergere il senso più profondo di una violenza che insegue una folle idea di liberazione, di redenzione attraverso il sangue. Di cosa si tratta?
È una prospettiva che nasce dalla dialettica padrone/schiavo di Hegel: l’idea che la massima libertà arrivi nella schiavitù. Allo stesso modo la purezza viene dall’essere «rovinati». È anche il fondamento del cristianesimo: il concetto secondo il quale la morte dà la vita e il sangue è l’unica cosa che salva. È un’elevazione del significato del sacrificio e, al contempo, un’affermazione della necessità della resa.

Jennifer Pashley

Il libro descrive una speciale «geografia» che sembra essere fatta allo stesso tempo di luoghi, condizioni sociali e stati della mente. Cosa l’ha ispirata?
Il paesaggio del Sud rurale mi ha sempre attirato moltissimo, ma quella stessa desolazione remota appare in realtà in molte zone degli Stati Uniti. Il Paese è così vasto, così bello dal punto di vista naturale, c’è così tanto spazio, ma osservandolo si prova anche una sensazione di spreco. Ci sono fabbriche vuote o edifici fatiscenti un po’ ovunque. Le città sorgono su rovine recenti. Non ci sono ruderi davvero antichi, solo archeologia industriale, le tracce lasciate dalle ex fabbriche. Ogni cosa sembra usa e getta: automobili, edifici, persone. C’è un’intera classe di persone che gli americani chiamano «spazzatura». Sono stata attratta dalla giustapposizione tra la straordinaria bellezza della natura e la disperazione dell’estrema povertà, di vite che sono state decimate dalla violenza, dall’abuso o dalla dipendenza.

Le campagne del Sud dove si svolge buona parte della storia fanno emergere le proprie atmosfere «gotiche», facendo pensare a certe descrizioni, tra gli altri, di Flannery O’Connor. L’eco di qualche rimando letterario che le è caro?
Sono stata decisamente influenzata dalla nozione di Sud propria di Flannery O’Connor, ma forse ancora di più da quella di Toni Morrison. È il Sud di Morrison quello in cui trovo città che diventano esse stesse personaggi, l’idea di un paesaggio quasi mitico, insieme alle idee degli opposti che si misurano: ciò e chi viene accettato o invece rifiutato, l’intero e il rotto.

Le atmosfere del romanzo evocano un immaginario cinematografico, ma lei ha parlato anche di riferimenti musicali, di cosa si tratta?
Scrivo in modo particolarmente visivo, quindi spesso descrivo le cose come se le stessi filmando. Ma in questo caso volevo soprattutto che il libro assomigliasse a una canzone di Bruce Springsteen: quella sorta di epica travolgente, la sensazione di racchiudere un intero luogo nel racconto e le profonde emozioni che nascono dal desiderio di qualcos’altro, di un altro posto. Mi sono sempre commossa profondamente per canzoni come «Thunder Road» o «Born to Run». Canzoni che per me sono come romanzi.

[do action=”citazione”]Molti bianchi poveri delle zone rurali hanno votato per Trump quattro anni fa. E immagino che lo faranno di nuovo. Si sono aggrappati a lui come a una specie di salvatore[/do]

 

Come spiega Rayelle parlando del suo nome, che il padre le ha dato perché gli ricordava la sua macchina preferita, una Chevrolet Chevelle, quello descritto nel romanzo è un universo di «poveri bianchi». Una parte del Paese che si dice abbia sostenuto Trump quattro anni fa. Crede andrà allo stesso modo anche questa volta?
In effetti, molti bianchi poveri delle campagne hanno votato per Trump nel 2016, e immagino che lo faranno di nuovo. Il che è particolarmente deludente visto che non credo proprio che lui abbia fatto nulla per i lavoratori o per le classi più deboli. Eppure, molti di loro si sono aggrappati a lui come a una specie di salvatore. In realtà è solo un trucco di marketing. Sembra che dica loro quello che vogliono sentirsi dire: e in molti casi si tratta di implicito (e talvolta esplicito) razzismo, ma travestito dalla retorica del «dire la verità», come se offrisse esclusivamente la verità, e tutti gli altri solo bugie. È difficile essere fiduciosi, ma spero comunque in un risultato diverso questa volta. Non voglio dire che sono ottimista al riguardo, ma descrivo la speranza in un senso attivo: quello per cui le persone si uniranno e lavoreranno per realizzare il cambiamento. In questo momento negli Stati Uniti siamo pericolosamente vicini a una dittatura.

Non è facile incontrare nella letteratura americana una simile descrizione di vite che si compiono quasi per intero in un parcheggio per roulotte. Sono molti gli americani che vivono tutta la loro vita così e che, come la madre di Rayelle, pensano che la propria biografia stia tutta sulla facciata di un foglio?
Sì. Molte persone vivono così, anche se questi «quartieri di roulotte» possono variare notevolmente. Alcuni sono in zone suburbane abbastanza grandi con prati e posti auto coperti. Ma molte aree rurali contano delle comunità più piccole e decisamente fatiscenti. Gli alloggi sono economici e in molti casi non sono sicuri. Intere comunità vengono distrutte da un tornado o da un uragano. La madre di Rayelle ha interiorizzato la tristezza della propria vita, in parte a causa di dove vive, ma anche per ciò che ha realizzato o meglio non ha fatto. Quando dice che potrebbe scrivere la sua storia su un solo lato di un foglio, in realtà sta dicendo che «a nessuno importa di questa storia». E, in un certo senso, non c’è niente da aggiungere. Ma in realtà, sono queste le storie più umane di tutte. Storie di desiderio e di lotta davvero universali.

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