Jean-Martin Charcot e Valentin Magnan, l’omosessualità affrancata dalla morale
Saggi «Inversione del senso genitale e altre perversioni sessuali», da Pacini editore
Saggi «Inversione del senso genitale e altre perversioni sessuali», da Pacini editore
Che Freud sia anche un grande scrittore, è ormai riconosciuto da tutti – anzi, sempre più spesso si sente dire (scioccamente) che è solo uno straordinario narratore. Di certo, i suoi casi clinici, a prescindere dal loro valore conoscitivo, sono storie avvincenti; ma non nascono dal nulla: già dalla fine del Settecento, con Philippe Pinel, e sempre più spesso nel corso dell’Ottocento, gli alienisti raccontarono la vita dei loro pazienti, non di rado lasciando la parola al delirio dei malati di mente, come ha mostrato Juan Rigoli nel suo monumentale Lire le délire (Fayard, Parigi 2001).
Nel secondo Ottocento, Jean-Martin Charcot e Valentin Magnan erano i luminari dei due grandi ospedali parigini dove si curavano le malattie mentali, la Salpêtrière e Sainte-Anne. L’articolo che scrissero a quattro mani nel 1882 Inversione del senso genitale e altre perversioni sessuali (curato e tradotto da Giulia Scuro per Pacini editore, pp. 112, € 9,50), è celebre e importante perché in Francia fu una delle primissime trattazioni scientifiche dell’omosessualità non viziate da una condanna moralistica; ma può essere letto innanzitutto come una raccolta di cinque racconti di argomento, per l’epoca, tanto stravagante quanto scabroso. Il primo caso clinico presentato è il più lungo, e l’unico in cui sia dato ascoltare la voce del presunto malato, che descrive la persistenza incoercibile di un desiderio (l’inversione nominata nel titolo) travolgente fin dall’infanzia e mai tradotto in concrete relazioni omosessuali: non dunque una scelta viziosa, ma un’inclinazione forse innata.
Gli altri quattro casi, riassunti più brevemente, riguardano invece fissazioni feticiste: una è rivolta a una porzione del corpo femminile (il fondoschiena); le altre, scelte verosimilmente anche in ragione della loro natura bizzarra, e perciò atta a suscitare la curiosità del pubblico, si appuntano su oggetti inanimati: un uomo riesce a avere rapporti sessuali solo toccando, o evocando, cuffie da notte indossate da signore anziane e avvizzite; un altro gode rubando e insozzando grembiuli bianchi; un terzo adorando calzature femminili chiodate.
Il saggio mantiene insomma le promesse del titolo: all’«inversione» sono accostate «altre perversioni»; e tutte – omosessualità e feticismo – vengono ricondotte a un quadro clinico gravemente patologico, segnato da tare ereditarie: questi casi «di perversione dell’istinto genitale sono sufficienti a dimostrare che i deliri multipli non sono che manifestazioni diverse della stessa malattia». Perciò, come spesso capita, il progresso della scienza medica positivista si rivela ambivalente: se per un verso all’omosessuale viene risparmiato, anche di fronte alla legge, ogni addebito di colpa, il riconoscimento di un’inversione innata, sempre collegata a altre turbe psichiche, lo rinchiude (in tutti i sensi) fra i matti. Avocando a sé il caso, il medico lo sottrae certamente al giudice (e a tutti gli altri tutori della morale pubblica), ma sancisce l’equivalenza fra omosessualità, feticismo e alienazione: «la perversione dell’istinto che ci interessa non è che una manifestazione rilevante di uno stato psicopatico molto più profondo». Del resto, è tristemente verosimile che molte delle vittime di una violenta condanna sociale soffrirono di disturbi psichici più o meno evidenti, a meno che, per un fortunato caso, l’«invertito» mostrasse un’invidiabile salute mentale, fatto che rendeva possibile inserirlo nella famigerata categoria (frutto dell’ingegno davvero perverso del dottor Ulysse Trélat) dei «folli lucidi».
Nell’articolo di Charcot e Magnan, resta tuttavia di straordinario interesse l’accostamento, non scontato, dell’omosessualità a una perversione dai contorni più sfumati, e potenzialmente veniale, come il feticismo, che di lì a poco avrebbe goduto di una straordinaria fortuna, clinica e letteraria: del 1887 è infatti il saggio fondamentale di un altro maître à penser della psichiatria di fine Ottocento, Alfred Binet, sull’amore feticista, che darà vita a un dibattito affascinante, lungo tre decenni e ricostruito benissimo da Martina Díaz Cornide in La Belle-Époque des amours fétichistes (Classiques Garnier, Paris 2019). Un dibattito, come molti di quelli suscitati dalla psichiatria positivista – cui non rende giustizia, in Italia, il cupo riduzionismo criminologico di Lombroso –, sempre in bilico fra stigmatizzazione e curiosità, fra velleità di cura e progressivo ampliamento della (presunta) norma naturale.
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