Jean-Jacques Langendorf, una belle époque dove armi e sapere escludono l’amore
Scrittori svizzeri Infanzia e giovinezza divise tra il crepuscolo di due imperi, asburgico e ottomano: «Scende la notte, Dio guarda», da Settecolori
Scrittori svizzeri Infanzia e giovinezza divise tra il crepuscolo di due imperi, asburgico e ottomano: «Scende la notte, Dio guarda», da Settecolori
Insieme libro di avventure, e complesso romanzo neo-modernista, che inscena la morte di dio e dell’antica civiltà asburgica, ottomana e patriarcale, offrendo soddisfazione sia al lettore in cerca di trame avvincenti sia a quello interessato agli enigmi storici e metafisici, Scende la notte, Dio guarda La crociera dell’Emden (Settecolori pp. 325, € 28,00), dello svizzero Jean-Jacques Langendorf, è un romanzo storico che prende spunto da uno dei più celebri, e quasi inverosimili, episodi della Grande Guerra.
Partita dalla colonia di Tsingtao, in Cina, una nave da guerra tedesca, l’Emden, semina il panico fra i vascelli mercantili battenti bandiera nemica, in giro per l’Oceano indiano. Il protagonista del romanzo, Hohberg, è un rampollo della piccola nobiltà, suddito dell’impero Austro-Ungarico: si imbarca sull’Emden per sfuggire al probabile internamento (Tsingtao capitolerà ben presto) e prende parte attiva alla guerra corsara condotta dai tedeschi, presto entrati nella leggenda come «gli ultimi bucanieri».
La sua rimane sempre, però, una posizione defilata, da osservatore disincantato: è ospite a bordo fra i Prussiani; più diplomatico che militare (ha lavorato per lo spionaggio austriaco in Medio Oriente), e più studioso che diplomatico (è un orientalista dilettante, ma straordinariamente dotato per le lingue e capace di importanti scoperte); è duplice, ambivalente, anche dal punto di vista letterario: è il protagonista di una vicenda puramente avventurosa e al tempo stesso l’eroe intellettuale di un romanzo che non nasconde ambizioni saggistiche e modelli illustri.
La «crociera» dell’Emden occupa infatti solo una parte del libro, alternandosi, con tecnica modernista, ai flash-back sulla biografia di Hohberg, alla rievocazione delle imprese di uno dei pionieri degli studi sul regno di Saba, Eduard Glaser, e a brevi frammenti in corsivo, che danno conto della progressiva trasformazione, prima in angelo e poi in uomo, di un dio benevolo e impotente, forse da identificare con l’antico Almaqah.
Infanzia e giovinezza di Hohberg si dividono fra i due imperi multietnici, quello asburgico e quello ottomano, che di lì a poco sarebbero stati spazzati via dal conflitto mondiale. Si alternano cavalcate col padre fra Bassa Austria e Boemia, sui luoghi delle battaglie napoleoniche; un soggiorno in Egitto che segna la vocazione arabistica del ragazzo; numerose missioni nell’impero Ottomano, fra Istanbul, Aleppo e lo Yemen, a caccia di informazioni militari e di antiche iscrizioni. La storia di Glaser, oltre a tratteggiare una violenta rivalità accademica (oggetto di un odio sconfinato è il cattedratico viennese, come lui ebreo, David Heinrich Müller), immerge il lettore nell’epica di una ricerca archeologica che imponeva, per mettere le mani su qualche epigrafe sabea, viaggi pericolosissimi e estenuanti trattative con i potentati locali.
Infine, la dolorosa metamorfosi del dio non ha nulla di una incarnazione cristiana: definitivamente uomo, l’angelo decaduto non potrà offrire alcuna protezione a un mondo avviato al cataclisma. La Grande Guerra segna, infatti, la fine irreversibile di tutti i Valori e di tutte le Civiltà.
Tanti romanzi in uno, insomma. E l’insieme funziona, anche grazie alla bella traduzione di Daniela De Lorenzo, che avvolge in un’atmosfera virilmente elegiaca, e in uno stile giudiziosamente patinato, il crepuscolo dei due imperi, la morte di un dio, le imprese degli ultimi pirati, insomma una belle époque integralmente maschile (una contadinotta ucraina e una prostituta berlinese sono eccezioni che confermano la regola: qui l’armi, e il sapere, escludono radicalmente gli amori).
È un bel romanzo, e meritava di essere tradotto, anche se – o forse proprio perché? – Langendorf esalta i fasti dell’orientalismo come se non avesse mai letto Edward Said; inscena un’epica e un’etica marinaresca come se non avesse mai letto Joseph Conrad; rinnova il mito asburgico legandolo strettamente a quello ottomano. Insomma, brucia incenso sugli altari di un ancien régime inclusivo e tollerante, cólto e raffinato, idealizzato precisamente perché imperfetto e disincantato, e di fatto sempre innocente – anche nelle colonie, e perfino sui campi di battaglia, ancora vergini dell’orrore delle trincee.
L’impeccabile competenza dello storico si rivela decisiva: induce il lettore a dare fiducia al narratore, che a sua volta sembra aderire al punto di vista degli eroi delle tre vicende parallele: innanzitutto Hohberg, ma anche Glaser (che nella realtà storica è stato un fiero avversario del sionismo) e il dio morente. Nella più schietta tradizione del pensiero anti-moderno, per non dire reazionario, all’origine di tutti i mali è la Rivoluzione Francese. Lo mostra un episodio solo in apparenza marginale: Hohberg assiste nel 1908 alla rivolta dei Giovani Turchi, le cui velleità di trapiantare il razionalismo illuminista nelle plaghe dominate dalla Sublime Porta ha per conseguenza inevitabile – il testo lo suggerisce chiaramente – il genocidio degli Armeni.
Bene che si traduca un romanzo così: in barba al dogmatismo perbenista degli Studies (di genere, post-coloniali, ecc.). E poi, volendo, c’è anche un dettaglio che ci consente di incrinare la solidarietà fra narratore e personaggi, di recuperare un’ambivalenza ideologica e rimettere in discussione la compattezza del romanzo a tesi. L’ultimo paragrafo dell’Avvertenza che chiude il libro è infatti dedicato a David Heinrich Müller, cui l’autore riconosce «nobiltà d’animo», nonostante «le valanghe di sarcasmo» che gli ha fin lì riservato Glaser, il quale si rivela così inattendibile.
Niente però, nel testo, ci induce a relativizzare il punto di vista di Hohberg. E verso la fine del romanzo, poco prima di rientrare in una Trieste italiana e spettrale, per poi suicidarsi in una Berlino disordinata e sinistra, il protagonista incontra in Iraq il barone e feldmaresciallo Colmar von der Goltz (alias Goltz Pascià), e ne dà una commossa, idealizzata descrizione. L’alto ufficiale prussiano e ottomano diventa un nostalgico e paterno simbolo della Civiltà sul punto di soccombere. Ora, questo signore ultrasettantenne – il libro non lo dice – prima di accorrere in aiuto dell’alleato ottomano, è stato, nell’autunno del 1914, Governatore del Belgio occupato, di cui ha represso la Resistenza inaugurando quelle pratiche di indiscriminata decimazione dei civili (più tardi citate e lodate da Hitler) che saranno poi adottate dalle SS contro i partigiani, sul fronte orientale e in Italia.
Credo che, per sua natura, la letteratura possa (debba) intrattenere un pericoloso commercio con il male. Eppure, all’ultima pagina, un dubbio mi resta: Langendorf è un narratore abile e scomodo, o semplicemente uno storico in malafede?
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