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Jean-Gabriel Périot, il popolo fuori dalla sua caricatura

Jean-Gabriel Périot, il popolo fuori dalla sua caricatura

Cannes 74 Il regista francese parla di «Retour à Reims», presentato alla Quinzaine

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 luglio 2021

Del libro di Didier Eribon, pubblicato nel 2009 e divenuto una lettura di riferimento e di formazione, Jean-Gabriel Périot ha mantenuto il titolo. Il suo film lavora però su un «adattamento» libero, che mette da parte l’autobiografia del «transfugo di classe», e quanto riguarda la sessualità e la sociologia dell’omosessualità, per concentrarsi sulla storia della classe operaia, e sull’affermazione in Francia del Front national come voto di protesta da parte di quella classe che si sente «consegnata» dal partito comunista al neoliberismo.
Retour à Reims (presentato alla Quinzaine) diviene dunque il racconto della Francia (forse però dell’Europa) al presente, in cui il testo parla nel rapporto con le immagini di archivio, e le rende attuali attraverso il montaggio ritrovando i conflitti di oggi nel filo del tempo.

Périot utilizza la memoria della televisione francese documentaria, del sindacato, la Cgt, del partito comunista, e del cinema diretto (Marker, Rouch) su cui le parole – lette in voce off da Adèle Haenel – lavorano costruendo una distanza, un dialogo che cerca la profondità.

«Il libro di Eribon va in molte direzioni anche private, la mia ricerca predilige la storia e la politica che sono nella parabola della classe operaia e del Front national. C’è naturalmente anche una certa prossimità, il testo tocca delle questioni che mi appartengono, anche per questo ho deciso che la voce off non poteva essere né la mia né quella di Didier, dovevo stabilire una distanza per attraversare questo luogo intimo».

Autore di un film molto bello sulla Baader Meinhof e la lotta armata in Germania (Une jeunesse allemande, 2015) e di un altro che riflette sul passaggio delle esperienze politiche tra diverse generazioni (Nos defaites, 2019) Périot è uno degli autori che esplora con precisione il presente a partire sempre dalla storia: è dentro le relazioni storiche – o nell’assenza di essere – che l’attualità può essere compresa, è nell’analisi del passato che la nostra realtà svela i conflitti spesso celati i nell’immediatezza dell’istante. Ci incontriamo un pomeriggio piovoso di fine festival.

La distanza di cui parli rispetto al testo cosa significa? In che modo hai scelto i tuoi «frammenti»?
Eribon parla molto di sé, non era però questo il terreno sul quale volevo confrontarmi col pubblico. Mi interessava il modo in cui nel testo prende forma una storia sociale a partire dalla classe operaia e dall’insorgenza dell’Fn. Non ho avuto un’esperienza diretta, a differenza di lui la cui famiglia era operaia; i miei genitori erano lavoratori autonomi. Questo non impedisce porsi delle questioni, anzi non essere coinvolti direttamente aiuta a percorrere dei luoghi narrativi che possono diventare molto personali. Il cinema alla prima persona non è la mia cifra, ho molta difficoltà a utilizzarlo e so che non avrebbe funzionato.

Hai pensato subito a lei, a Adèle Haenel per la voce?
No, sapevo che non doveva essere un uomo a leggere ma una giovane donna per accentuare la presa di distanza rispetto al testo e alle immagini degli archivi. Lei è un’attrice, la sua voce però non è neutra come spesso quella di chi l’ha impostata con la dizione, sia al cinema che in tv; Adèle invece ha conservato delle sfumature che la rendono molto fisica. Inoltre è qualcuno che dialoga con il contemporaneo.

Quello che prende forma nei decenni è il racconto di un «tradimento»: come questa classe operaia si è sentita messa da parte dalle forze politiche a cui aveva delegato la propria rappresentazione.

È un po’ ciò che sottolinea il dialogo tra i personaggi del film di Colin Serrau, La crisi! – che ho scelto per questo – tra un borghese socialista e un proletario che vive nelle periferie; quest’ultimo alle accuse di razzismo risponde chiedendogli di venire a stare dove vive lui. C’è una certa «cattiva coscienza» nel modo di confrontarsi con i disagi che esprime quel «proletariato». Che viene messo all’angolo, accusato di razzismo, senza assumere che questo passaggio è il risultato di anni di scelte. La Francia è stato sempre un paese di migrazione, italiani, greci, nei confronti dei quali il sospetto iniziale è spesso mutato in solidarietà di classe. Con i nordafricani, gli algerini soprattutto, le cose sono cambiate ma perché la politica, il governo ha deciso che si doveva trovare un avversario – facendo leva anche sulle questioni coloniali e post-coloniali. Grazie a questo tutti potevano essere ridotti più facilmente al silenzio, e la classe operaia si è trovata pian piano a accettare condizioni sempre peggiori, i tagli al salario, l’aumento delle ore di lavoro ecc. La fine della conflittualità e le divisioni hanno sostenuto il neoliberismo fino alla precarietà odierna. E le classi dirigenti di sinistra hanno perduto progressivamente il contatto con la realtà di cui dovevano essere portavoce. Il popolo si è ridotto a una caricatura come dimostra anche l’esperienza dei Gilets Jaunes. E il razzismo è divenuto uno strumento del potere per indebolire le classi popolari, isolarle, dividerle.

È proprio la protesta del Gilet gialli che troviamo nel capitolo conclusivo del film.
La sinistra non ha capito molto di questo movimento e non si è neppure sforzata. Non hanno voluto riflettere sulla sofferenza che esprimeva, è stato un nuovo tradimento dei militanti e degli intellettuali di sinistra che li ha identificati sono con l’estrema destra e che non è stata capace di esprimere una solidarietà in quelle violenze terribili della polizia che hanno subito. E che non si possono tollerare per nessuno. Quella piazza era molto differenziata, e del resto l’idea stessa di «rivoluzione» contiene la spinta a unire persone e forze diverse verso un obiettivo.

Nel film la madre dell’autore dice di avere votato Fn e al figlio che le ricorda che sono contro l’aborto, e lei aveva abortito più volte. La donna risponde che non condivide quanto dicono, che poi al secondo turno voterà «normalmente».

È un passaggio importante, quando ero giovane e vivevo a Antibes, molti miei conoscenti hanno votato per il Front national, era una forma di contestazione – infatti poi hanno votato «normalmente» anche loro – contro un nuovo razzismo e una miopia rispetto a quanto stava accadendo.

E oggi?
Tutto è molto più confuso. In fondo l’Fn ha vinto perché i punti centrali del suo programma come la sicurezza o la lotta all’immigrazione sono rivendicati da tutti i partiti. Assistiamo al paradosso che certi discorsi di Marine Le Pen sembrano più a sinistra di quelli dei politici di sinistra. I quali in Francia, anche se «estremi» esprimono ormai una personalità e non parlano mai con una voce collettiva. Il libro risale a diversi anni fa, nel frattempo sono accadute molte cose. La politica sta iniziando a abitare altri spazi e a prendere altre forme, passa per i movimenti queer, il postfemminismo, l’ecologia. Qui si incrociano altre istanze, e per questo ho voluto mostrarli alla fine del film, insieme ai Gilets Jaunes. Hanno forse una carattere ibrido, ma per me è esaltante che in questi temi possa prendere forma una nuova lotta anticapitalista.

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