Anche il regno della finzione letteraria in questa triste settimana piange un suo sovrano: Javier Marías dominava, infatti, non soltanto sui confini del romanzo, che hanno perso in lui un candidato finalmente plausibile al Nobel per la letteratura, ma anche su quelli di una piccola isola dei Caraibi di nome Redonda, che peraltro non aveva mai visto. La ereditò nel 1999, al volgere del secolo, dallo scrittore inglese John Gawsworth, che trasferì in qualità di personaggio tra le pagine di Tutte le anime, ma che è esistito davvero. L’isola era stata offerta a Marías, insieme ai diritti letterari degli scrittori che l’avevano nel tempo posseduta, e lui aveva considerato indegno di un romanziere rifiutare l’insolito dono. In questo dettaglio di vita, si concentra molto di quel che riguarda lo scrittore spagnolo, dalla ironia alla propensione a forzare la sfera del possibile.

LE SUE TRAME ospitano infatti con pari dignità i fatti compiuti e quelli mancati, l’atto e la potenza, i condizionali controfattuali e la prepotente assertività del reale. Se le digressioni si allungano sulle pagine di Marías, a volte fino a sfinire la resistenza del lettore, è perché di tutti i suoi personaggi principali gli stava a cuore restituire le virtualità perdute accanto a quelle che si erano tradotte in realtà, gli accadimenti evitati accanto a quelli conclamati, e insomma tutta la gamma fantasmatica che si originava dalle proiezioni della sua logica, a malapena arginata dai confini di volta in volta assegnati all’equilibrio del romanzo in via di scrittura.

Sono passati trent’anni dalla pubblicazione del primo titolo che inaugurò la fama di Javier Marías, Un cuore così bianco, da Donzelli meritoriamente scoperto prima che la Einaudi ne acquisisse tutti i titoli: nell’incipit, una donna appena tornata dal suo viaggio di nozze, e senza apparenti motivi di dolore, si chiude in bagno mentre gli altri sono a pranzo e si spara. La storia riproduce il destino di una parente di cui Marías aveva sentito parlare quando era bambino: «questo episodio – raccontò all’epoca del nostro primo incontro, nel febbraio del 1998 – potrebbe corrispondere a quel che Nabokov chiama “il primo palpito”. Le uniche persone che avrei potuto interrogare in proposito erano ormai morte. Allora, la sola chance che avevo di rintracciare i motivi di quel suicidio era inventarli».

Nient’altro se non una coincidenza fa sì che cominci con una morte anche il romanzo successivo, uno dei più famosi di Marías, Domani nella battaglia pensa a me, del 1994, dove la donna con cui il narratore aveva deciso di passare una notte gli muore tra le braccia, senza essere preceduta da alcun sintomo di malore. «A me sembra – disse Marías – che i due romanzi mettano in campo l’uno la controfigura dell’altro: da una parte un protagonista che non vuole sapere cosa si nasconde dietro una morte, dall’altra una voce narrante che sa, e cerca il modo di raccontarlo agli altri». Entrambi i titoli, come molti dettagli che si nascondono tra le pagine di Marías, sono mutuati dalle parole di Shakespeare, del quale lo scrittore spagnolo esibiva un ritratto smaltato, sempre presente sul bavero della sua giacca: lo aveva acquistato in Inghilterra a un’asta dove si vendevano gli oggetti appartenuti a Robert Donatt, l’attore ingaggiato da Hitchcock per Il club dei 39.

RACCHIUSE IN QUELLA piccola immagine, Marías portava dunque sempre con sé le fonti principali della sua rêverie: il grande drammaturgo inglese e il cinema, a loro volte innestate sulla tradizione spagnola, dalla quale veniva per esempio la sua predilezione per l’essere sospesi nell’«incantamento», tra uno stato di presenza e uno di assenza, non tanto della coscienza quanto della realtà.

MARÍAS CHIAMA questa condizione ricorrente nelle sua pagine, «un palpito incessante nel pensiero»: in Domani nella battaglia è questo lo stato mentale del protagonista che, subito dopo essersi ritrovato a letto con il cadavere di una donna appena conosciuta, ragiona sulle varianti con cui si manifesta la morte, e la trova non soltanto imprevedibile ma anche ridicola. Se il tempo fosse bastato ci sarebbe stata la consumazione di un possibile amore, forse premeditata o forse no, perché tutto appare interscambiabile nella mente del narratore: un evento e la sua assenza di realizzazione, un pensiero e un fatto, una azione incompiuta e una già agita.

Quale malore abbia colto la donna e quale la sua causa il lettore non lo verrà mai a sapere, semplicemente perché nessuno indaga, e al protagonista prima di tutto non interessa scoprirlo. Un senso di irrealtà venato di cinismo si irradia da queste pagine, insieme alla coscienza del disinganno e a quella della inverosimiglianza del pensiero tanto simile al sogno; mentre una serie di monologhi interiori ossessionano la mente del protagonista, che solo molto tardivamente si muove per conoscere i parenti della donna morta, consentendo alla trama di volgere in azione quelli che a lungo erano stati solo pensieri.

In Domani nella battaglia pensa a me – disse nel corso della nostra conversazione all’epoca dell’uscita del libro – «il tema è relativo alla consapevolezza di dovere convivere con l’inganno. È faticoso non potere essere mai la stessa persona: spesso non è questione di grandi inganni, ma del fatto che nessuno di noi si presenta a persone diverse nello stesso identico modo. Tra l’altro, è necessaria una grande memoria per essere coerenti con noi stessi, per ricordare cosa abbiamo trasmesso di noi alle diverse persone con le quali siamo entrati in contatto».

CHI HA IN MENTE gli ultimi due romanzi di Marías, Berta Isla e Tomás Nevinson, sa quanto questi stessi temi abbiano invaso il suo spazio romanzesco fino a diventarne protagonisti. Nel primo dei due romanzi correlati, il protagonista era stato arruolato ai tempi in cui studiava a Oxford grazie a una manovra che lo aveva incastrato nei servizi segreti della Corona inglese, e aveva passato tutta la vita nascondendo le sue missioni, mentre la moglie Berta aspettava che tornasse dai lunghi viaggi, che lo portavano tanto frequentemente via di casa. Finché un giorno Tomás non era rientrato affatto e lei aveva finito con il crederlo morto.

Ma nella mente di Marías, il personaggio si ribellava al suo destino: troppo giovane per non avere un domani, aspettava solo un nuovo romanzo per ritrovare il proprio posto nel mondo. E fu così che ricomparve, prestando il suo nome a quello che è l’ultimo libro pubblicato dallo scrittore spagnolo, Tomás Nevinson, tradotto da Einaudi poco dopo la sua uscita in Spagna, nello scorso inverno.

A dodici anni dalla sua ultima missione, dopo essere stato di fatto ripudiato dai servizi segreti, l’agente ormai bruciato e «inabissato nei brutti ricordi» viene ricontattato e di nuovo ingaggiato dal suo ex datore di lavoro, Bertram Tupra, una vecchia conoscenza per i lettori di Marías che già lo avevano incontrato in un romanzo composito del 2002-2007, Il tuo volto domani. Come e più di tanti altri scrittori, Marías è restato spesso affezionato alle sue atmosfere e ai suoi personaggi, consegnando loro diversi destini nelle diverse opere in cui compaiono. Sia Nera schiena del tempo (del 1998), che il precedente Tutte le anime (1989) sono per esempio ambientati nella Oxford dove Marías insegnò per due anni, e sono entrambi popolati di personaggi che tornano con gli stessi nomi, negli stessi ruoli. Nessuna remora nel permettere che azioni, pensieri e parole si contraddicano da un romanzo all’altro: «Pensare letterariamente – disse nel corso di un nostro secondo incontro al Festivaletteratura di Mantova nel 2000 – vuol dire, per me, avere il vantaggio di potersi contraddire, anche infinite volte all’interno dello stesso testo, oppure da un libro all’altro».

DEL RESTO, GIÀ qualche anno prima aveva descritto in Errare con la bussola la sua mancanza di programmazione dei romanzi, e il suo fare a meno di una mappa nel procedere dei propri intrecci: «sono il contrario del romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere, so più o meno dove voglio andare, ma non seguo nessuna carta e perciò talvolta mi trovo davanti a un precipizio senza sapere che c’era. Piuttosto, osservo una disciplina secondo la quale non rettifico mai quel che ho scritto. Alla scrittura applico lo stesso principio di conoscenza che, per causa di forza maggiore, appartiene alla vita: non si può modificare quel che è stato».

L’unica certezza, scrisse Marías tra le righe delle sue pagine, è che «nulla persiste e tutto si perde»: non è vero, lui stesso si sarebbe smentito, se non altro per il gusto di trovare di che contraddirsi ancora, e poi tornare sui suoi passi e raccogliere una per una le sue congetture, e le sue affermazioni controfattuali, per destinarle a una finzione più duratura della vita.