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Israele consegna a Gaza 88 corpi decomposti e senza nome. «Ora basta, diteci chi sono»

Una famiglia porta via dall'ospedale di Deir al Balah il corpo senza vita di un parenteUna famiglia porta via dall'ospedale di Deir al Balah il corpo senza vita di un parente – ZumaPress /Omar Ashtawy

Davanti agli occhi Per la prima volta il ministero della salute rimanda indietro un camion pieno di cadaveri palestinesi. Blinken nel mirino: mentì sul rapporto Usa che accusava il governo israeliano di bloccare gli aiuti

Pubblicato 20 giorni faEdizione del 26 settembre 2024

Non era mai successo prima che le autorità sanitarie di Gaza rifiutassero corpi di palestinesi. Lo hanno fatto ieri, 88 cadaveri decomposti, senza nome, arrivati dentro un camion israeliano. Il ministero della sanità lo ha rimandato indietro: chiede che Tel Aviv fornisca «nomi, età, genere, i luoghi in cui sono stati catturati o uccisi», così da poterli identificare, consegnare alle famiglie e garantire loro una degna sepoltura.

Era già successo cinque volte nei mesi precedenti, camion pieni di corpi non identificati e decomposti a un punto tale da essere irriconoscibili ai propri cari. D’ora in poi, comunica il portavoce del ministero della salute Iyad Qadeeh, le autorità palestinesi rifiuteranno ogni corpo senza nome come quelli transitati dal valico di Kerem Shalom il 2 agosto scorso, «ossa e corpi decomposti in modo disumano» tanto, ha aggiunto il portavoce, che cinque persone diverse hanno riempito una sola bara.

DIFFICILE DIRE chi siano o da dove provengano. Dall’inizio dell’offensiva via terra, a fine ottobre, le truppe israeliane hanno catturato circa 5mila palestinesi vivi, sulle cui sorti non si hanno notizie certe. E hanno riesumato, nei cimiteri o nelle fosse comuni lasciate dietro di sé, centinaia di cadaveri per verificarne l’identità e individuare eventuali ostaggi rapiti il 7 ottobre 2023 nell’attacco di Hamas nel sud di Israele.

Ieri, quando si era sparsa la voce dell’arrivo del camion, in tanti si sono ammassati fuori dagli ospedali sperando di ricevere i cari scomparsi nei mesi scorsi. Lo fanno sempre, racconta Middle East Eye: «Ogni volta veniamo a controllare», dice all’agenzia Sonia Aburjeila, in attesa a Khan Younis per suo padre e suo figlio. Sperano tutti di individuare un segno, un pezzo di vestito, di scarpe che combaci con i ricordi.

Calcolare i dispersi è opera complessa, se ne stimano almeno 10mila tra i corpi trafugati e quelli che si immagina siano ancora sotto le macerie dei palazzi. Il numero oscilla: qualcuno viene identificato, qualcun altro sparisce in un nuovo bombardamento. Raid continui che negli ultimi giorni, raccontano i giornalisti di Gaza, sembrano concentrarsi sulle abitazioni ancora in piedi, da nord a sud. Al centro le zona più colpite nelle ultime ore restano il campo profughi di Bureji (sei uccisi, tra loro tre bambini e un neonato di sette mesi) e Deir al Balah (una donna incinta e i quattro figli); a sud Khan Younis e Rafah (almeno nove uccisi in tre attacchi separati). Il bilancio dal 7 ottobre sfiora i 41.500 morti accertati.

Vittime anche in Cisgiordania, a sud di Jenin, nel villaggio di Anza: una palestinese di 37 anni, Zuhour Qassem Amro, è stata uccisa dai soldati israeliani e quattro persone (due donne, un bambino e un anziano) ferite.

A GENERARE sconcerto ieri è stata anche la notizia pubblicata dall’agenzia ProPublica: nell’aprile scorso un rapporto congiunto di UsAid (l’agenzia statunitense per la cooperazione e lo sviluppo) e del Dipartimento di Stato accusava Israele di bloccare deliberatamente l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Il memorandum di 17 pagine identificava le modalità: i ritardi e i fermi dei camion ai valichi (Kerem Shalom e, all’epoca, anche Rafah chiuso del tutto dal 6 maggio), ma anche raid su ospedali e magazzini e l’uccisione di operatori umanitari. Le migliaia di camion umanitari visti al confine tra Gaza ed Egitto e le regole non scritte sul loro ingresso messe in pratica a caso dall’esercito israeliano ne erano già la prova.

Nonostante il rapporto, però, il segretario di stato Antony Blinken, titolare del dicastero che lo ha prodotto, si è presentato di lì a poche settimane di fronte al Congresso negando non solo i risultati dell’inchiesta ma fornendo la versione opposta (ha fatto infuriare anche i membri del suo staff, alcuni si sono dimessi per protesta).
Ieri il Council on American-Islamic Relations ha chiesto le dimissioni di Blinken: «Quando un alto funzionario americano mente al Congresso nel bel mezzo di un genocidio, in modo che il governo possa continuare a finanziare quel genocidio, sta deliberatamente violando la legge e prolungando le sofferenze di milioni di persone innocenti».

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