Duecentocinquantaquattro giorni di guerra e in Ucraina si continua a morire. Non si parla più molto della controffensiva di Kiev nell’est, segno del fatto che le operazioni sono rallentate, se non addirittura giunte allo stallo. È diventato poco frequente leggere le storie dei civili che da mesi vivono isolati nei villaggi lungo i fronti a Bakhmut, a Soledar o al confine con l’oblast di Lugansk ma ciò dipende solo dai meccanismi dei media. E, spesso, capita che tornare sui propri passi ci faccia rendere conto soltanto di quanto dolore giace alla rinfusa insieme a quelle rovine.

È IL CASO DI IRINA E OLENA, che abbiamo raccontato sulle colonne di questo giornale meno di un mese fa. Le due donne avevano scelto di non partire come tanti nell’est. Le motivazioni ormai le conosciamo: paura dell’ignoto, paura di essere trattati come profughi in città sconosciute tra gente sconosciuta, paura di non avere i mezzi per sopravvivere e di essere costretti a rinunciare anche alla dignità. Insomma, paura. Un sentimento che però in queste terre martoriate non porta all’inazione, alla stasi di chi è terrorizzato e non riesce a compiere un passo. In Donbass sei costretto a muoverti, devi trovare la legna per accendere il fuoco che serve a scaldarti e a cucinare, devi correre al punto di raccolta a ritirare gli aiuti umanitari (quando arrivano) perché altrimenti potresti restare una settimana senza mangiare. E soprattutto, devi sempre essere pronto ad allontanarti se senti il sibilo dei mortai. Lo hanno imparato tutti, bambini e anziani, e ora fa parte di quelle abitudini di cui si ha una sorta di conoscenza innata. Di come l’essere umano si abitua a tutto pur di sopravvivere abbiamo parlato più volte, ma abituarsi alla paura non è semplice. E infatti, dopo qualche tempo si iniziano a ignorare gli allarmi anti-aereo, i boati in lontananza, ci si nasconde di meno. La stanchezza gioca un ruolo fondamentale in questo lassismo di guerra ma non si dimentichi che si deve pur vivere, anche nella peggiore delle situazioni è impossibile non pensare a una cosa che sia non necessaria, a una di quelle cose che ci rende umani.
È il caso di Olena, ad esempio, la quale ai giornalisti che irrimediabilmente finivano nel cortile del suo comprensorio a Soledar, chiedeva sempre le stesse due cose: «sigarette e cibo per gatti». Sul fumo qualcuno potrà anche obiettare che è un modo per combattere lo stress, anche se la faccia soddisfatta di Olena ad ogni sigaretta che accendeva suggeriva qualcosa di diverso da un semplice palliativo. Sul cibo per gatti è più dura: perché chiedere cibo per un animale domestico quando non se ne ha per sé?

I POCHI DELLA STAMPA internazionale che si sono spinti fino al suo palazzo negli ultimi due mesi per documentare il tentativo di avanzata russa verso Bakhmut l’avranno incontrata sicuramente. La strada per Soledar era ogni volta peggiore, ogni volta nuove carcasse di auto, fosse create dalle esplosioni, missili conficcati nel terreno in diagonale, palazzi distrutti, cavi dell’alta tensione penzolanti. Tutto contribuiva a rendere quei pochi chilometri angoscianti, con lo sguardo rivolto costantemente verso la grande fabbrica di sale (anch’essa bombardata) perché è da lì che si apriva la strada tra gli alberi e potevano vederti. Per circa venti minuti potevi essere un bersaglio, magari scambiato per un militare, e diventare un’altra carcassa spostata al ciglio della strada. Poi, alla fine, trovavi Olena indaffaratissima (quasi sempre a cucinare) e Irina placida e rassegnata che ripeteva all’ennesimo straniero «non ho altro posto dove andare».

DA QUALCHE TEMPO IRINA è in un ospedale con un braccio amputato e Olena è in un centro per rifugiati forse ancora in Donbass. Un mortaio ha centrato il loro palazzo mentre la Croce rossa stava effettuando un’evacuazione. Un anziano e una signora sono morti sul colpo mentre Irina è stata trasferita d’urgenza all’ospedale di Kostantinovka con un’emorragia quasi letale che è stata fermata solo amputandole un arto.
Così la morte di un vicino e la distruzione delle cantine che utilizzavano per dormire hanno costretto le 24 persone, tra cui 4 bambini, che non volevano andarsene da quel comprensorio di Soledar a cercare rifugio altrove. La storia di Irina e Olena è solo una delle tragedie private scatenate dall’invasione di Putin il 24 febbraio, come loro ci sono decine di migliaia di «sopravvissuti» privati per sempre di qualcosa o qualcuno.