Alla minaccia lanciata ieri dalle autorità iraniane rischia di seguire ancora una volta il pugno di ferro contro la nuova mobilitazione indetta da domani fino al 7 dicembre, Giornata nazionale degli studenti universitari, dagli attivisti iraniani in continuità con le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini. «Le agenzie di sicurezza, con tutta la loro forza e senza tolleranza, faranno fronte a ogni nuova rivolta», ha avvertito il Consiglio di sicurezza iraniano facendo riferimento, senza nominarla, alla milizia Basiji di solito impiegata contro i dimostranti. Il Consiglio ha ammonito «studenti, partiti politici, gruppi, attivisti che operano via social network» ad essere vigili «su quanto trama il nemico e a respingere le rivolte collaborando invece con il governo, per instaurare un dialogo politico volto a riformare alcune questioni e superare i problemi nel paese».

Difficile valutare da queste frasi quanto le autorità iraniane siano pronte ad avviare qualche forma di dialogo dopo quasi tre mesi di manifestazioni popolari e di sanguinosa repressione delle proteste di donne e uomini che chiedono più libertà. Così come non è facile interpretare l’annuncio del Procuratore generale, Mohammad Jafar Montazeri, un ultraconservatore, che ha parlato di una decisione entro 15 giorni da parte «del Parlamento e del Consiglio Supremo della Rivoluzione Culturale sulla questione dell’hijab obbligatorio». Montazeri non si è sbilanciato ma è improbabile che l’ala dura della Repubblica islamica, cedendo alle pressioni della piazza, accetti di modificare in senso più liberale la legge che obbliga le donne ad indossare il velo.

I segnali restano inquietanti. IranWire riferisce che la casa della famiglia della scalatrice Elnaz Rekabi sarebbe stata demolita per ordine delle autorità in risposta al gesto dell’atleta che ad ottobre a Seul aveva gareggiato senza indossare il velo ai Campionati asiatici della Federazione di arrampicata – in seguito ha detto che il suo velo era caduto «inavvertitamente» – mentre le proteste delle donne si stavano diffondendo in tutto l’Iran.

Le immagini diffuse da IranWire mostrano un edificio in macerie, medaglie gettate per terra e il fratello dell’atleta in lacrime. Ciò mentre gli sportivi iraniani hanno accolto con sgomento la notizia della condanna a morte dell’allenatrice di pallavolo Fahimeh Karimi arrestata nelle scorse settimane durante una manifestazione a Pakdash (Teheran) e incriminata come una delle leader delle proteste e per aver sferrato calci a un miliziano Basiji. Preoccupa anche la sorte dell’attivista Arash Sadeghi, gravemente ammalato, che entra ed esce di prigione dal 2009 e che è stato arrestato di nuovo ad ottobre. Immagini diffuse sui social mostrano Sadeghi costretto a letto e in condizioni critiche. Le Nazioni Unite chiedono il suo rilascio immediato.

Al quadro interno inquietante si aggiunge la posizione sempre più precaria dell’Iran sulla scena internazionale. Il rilancio dell’accordo Jcpoa sul programma nucleare iraniano si allontana e si allarga di conseguenza la distanza tra Teheran e Washington. Appena qualche mese fa le due parti apparivano vicine a un’intesa.  «Oggi, è vero, ci sono meno speranze» ha detto ieri Robert Malley, l’inviato speciale degli Stati uniti per l’Iran, nel suo intervento ai Med Dialogues a Roma, addossando all’Iran la responsabilità piena per l’obiettivo mancato. «Due anni fa (Teheran) non stava sostenendo una guerra di aggressione in Europa», ha affermato riferendosi alla fornitura di droni iraniani alle forze armate russe. Né l’Arabia Saudita era finita sotto «minaccia» (iraniana) o era a rischio la «sovranità» dell’Iraq, ha aggiunto Malley. L’inviato di Joe Biden ha ribadito la necessità di tenere aperta la porta della diplomazia perché, «in fin dei conti, la storia ha mostrato che la diplomazia è il modo migliore per risolvere la questione». Ma con il trascorrere dei mesi cresce il rischio di un attacco militare Usa, più probabilmente israeliano, contro le centrali nucleari iraniane. Teheran costruirà, a Darkhoveyn, al confine con l’Iraq, un altro impianto atomico con un reattore di 300 megawatt.