Vestito di bianco e con il volto coperto, il corpo che penzola dalla gru: è l’immagine che circola sui social del ventitreenne Majidreza Rahnavard, impiccato ieri mattina nella pubblica piazza a Mashad poco prima dell’alba, forse per evitare che il suo assassinio attirasse i manifestanti. Poco dopo, alle 7 del mattino, uno sconosciuto avrebbe telefonato ai famigliari dicendo: «Andate al cimitero sezione 66 per trovare vostro figlio sepolto». È stato giustiziato con l’accusa di aver ucciso due paramilitari durante le proteste, ma l’avvocato della famiglia ha sottolineato che esiste un video- mai pubblicato – che mostra come i paramilitari abbiano attaccato per primi. Rahnavard è il secondo manifestante giustiziato per aver preso parte alle proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini.

A PRENDERE POSIZIONE contro la sua impiccagione e, prima di lui, contro quella del suo coetaneo Mohsen Shekari, sono tre ayatollah. Membro dell’Assemblea degli esperti ed ex capo della Corte Suprema, l’ayatollah Morteza Moghtadai ha dichiarato: «Chiunque sia accusato di ‘Muharebeh’ (guerra contro Dio o corruzione sulla terra) non dovrebbe essere necessariamente giustiziato». E ha aggiunto: «Secondo l’Islam tali accuse sono legate alla guerra, non agli scontri tra una o due persone». Dello stesso tenore sono state le critiche alla magistratura da parte di altri due ayatollah che, di fatto, assumono posizioni nettamente contrarie a quella del leader supremo, responsabile di questa escalation di violenza.

FIN DALL’INSTAURAZIONE della Repubblica islamica nel 1979, all’interno del clero sciita vi sono sempre state contrapposizioni con la leadership. A fomentare le divisioni è il fatto che Ali Khamenei è diventato leader supremo nel 1989, alla morte dell’ayatollah Khomeini, in seguito a un emendamento della Costituzione. Era stato promosso d’ufficio al rango di ayatollah, senza averne i requisiti dal punto di vista teologico perché si è sempre occupato più di politica che di questioni teologiche. In questi 43 anni, tutti i religiosi che hanno osato esprimere dissenso sono stati interpellati dal Tribunale religioso che li ha condannati al carcere, agli arresti domiciliari e all’esilio. A vivere queste vicende sulla loro pelle sono stati gli hojatolleslam Mohsen Kadivar (oggi docente a Duke University negli Usa) e Youssefi Eshkevari (aveva osato mettere in discussione l’obbligo del velo), e anche il cognato del leader supremo Khamenei (il marito della sorella Badri).
Alla luce dei rischi, è significativo che tre membri del clero sciita abbiano criticato le esecuzioni capitali. Intanto, in reazione alla repressione in atto in Iran l’alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell ha dichiarato che Bruxelles «approverà un pacchetto di sanzioni molto duro verso l’Iran».

SONO DECENNI che l’Iran è sotto sanzioni, comminarne altre non è la soluzione: «Queste misure hanno radicalizzato il regime, hanno provocato una grave crisi economica e impoverito la popolazione», afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. In Iran l’inflazione è galoppante e la valuta locale ha perso valore tant’è che oggi un insegnante guadagna l’equivalente di appena 250 euro al mese, mentre chi sta al potere – ayatollah e pasdaran – hanno gli strumenti per aggirare le sanzioni e, paradossalmente, riescono anche a mandare figli e nipoti a studiare all’estero.
In merito a che cosa si possa fare per aiutare gli iraniani che, nonostante la repressione, da quasi tre mesi continuano a rischiare la vita manifestando la propria volontà di un cambio di sistema politico, Noury ribadisce che «se la comunità internazionale continua a fare soltanto dei comunicati stampa, il segnale che arriva al regime è che può andare avanti a reprimere il dissenso, e quindi a impiccare dopo processi sommari e dopo aver estorto confessioni con la tortura. Sarebbe opportuno – continua il portavoce di Amnesty International Italia – che le ambasciate a Teheran mandassero gli osservatori internazionali nei tribunali, per far vedere che la comunità internazionale c’è, con una presenza fisica e non solo a parole». Infine, conclude Noury, «è necessario istituire rapidamente la commissione di accertamento dei fatti approvata dal Consiglio Onu dei diritti umani».