Iran, contagi e decessi ai vertici. Il sogno Usa lo avvera il Covid
Golfo Colpiti almeno 23 deputati e 12 ministri, da ultimo il presidente del parlamento Larjani. Tra i casi positivi la vice di Rohani, nel ’79 portavoce degli studenti nella presa degli ostaggi statunitensi
Golfo Colpiti almeno 23 deputati e 12 ministri, da ultimo il presidente del parlamento Larjani. Tra i casi positivi la vice di Rohani, nel ’79 portavoce degli studenti nella presa degli ostaggi statunitensi
Il cigno nero colpisce i vertici della Repubblica islamica: ad ammalarsi di Covid-19 sono almeno 23 deputati e 12 funzionari di questo governo o dell’esecutivo precedente.
Diversi di loro hanno già perso la vita. L’ultimo a dichiarare di essere positivo è il presidente del parlamento Ali Larijani, 62 anni.
Secondo il ministero della Sanità di Teheran, dal 19 febbraio i morti in Iran sarebbero 3.294 e nelle ultime 24 ore sarebbero risultate positive altre 2.715 persone, dato che porterebbe le infezioni totali a 53.183; 17.925 iraniani sarebbero guariti e avrebbero lasciato gli ospedali, mentre 4.035 resterebbero in condizioni critiche.
Il condizionale è d’obbligo perché i dati sono sottostimati. La situazione è resa più difficile dalle sanzioni. Per far fronte all’emergenza, le autorità hanno annullato le preghiere del venerdì, chiuso i mausolei (anche quello di Masumeh nella città santa di Qom, epicentro del virus), il parlamento, le scuole e le università.
Non hanno imposto restrizioni agli spostamenti come in Italia, ma per contenere la pandemia hanno vietato i viaggi tra una città e l’altra almeno fino all’8 aprile e chiesto di restare a casa anche il 1° aprile in cui in Iran si festeggia con un picnic l’ultimo giorno delle festività del Nowruz, il Capodanno persiano.
In questi decenni Washington ha cercato invano di rovesciare la leadership della Repubblica islamica: finanziando rivoluzioni «di velluto», sobillando le minoranze nel Khuzestan e nel Sistan-Balucistan, uccidendo con un drone il generale Soleimani che, dopo una carriera nei pasdaran, si affacciava alla politica. Se Washington ce l’ha a morte con Teheran è soprattutto (ma non solo) perché è viva la memoria della crisi degli ostaggi.
Il 4 novembre1979 qualche centinaio di studenti radicalizzati si era presentato nel compound dell’ambasciata Usa a Teheran. Disarmati, chiedevano l’estradizione dello scià Muhammad Reza Pahlavi che, malato terminale, il 22 ottobre era stato ammesso in una clinica americana dopo un lungo girovagare tra Egitto, Bahamas e Messico.
Una dozzina di giorni dopo, gli studenti ne reclamavano l’estradizione affinché pagasse per le violazioni dei diritti umani durante i suoi trentotto anni di regno. La loro portavoce era la diciottenne Masumeh Ebtekar che nell’esecutivo di Rohani ricopre la carica di vicepresidente ed è tra i contagiati dal Covid-19.
Quel 4 novembre 1979 i marines imbracciarono le armi ma non spararono. Gli studenti riuscirono a penetrare nell’ambasciata districandosi tra i corridoi, segno che l’operazione era stata preparata anche se l’Ayatollah Khomeini dichiarò di non saperne nulla.
Presero 65 ostaggi e 52 di loro furono trattenuti per 444 giorni. La crisi costò la poltrona al presidente Carter anche perché l’operazione Artiglio dell’aquila del 24 aprile 1980, volta a liberarli, fu un disastro.
Con otto elicotteri RH-53D Sea Stallion della Marina decollati dalla portaerei USS Nimitz e sei aerei da trasporto C-130, i marines non riuscirono a combinare nulla: gli elicotteri si infilarono in due tempeste di sabbia che disorientarono i piloti, la frattura di una pala del rotore costrinse un elicottero a un atterraggio di emergenza. Il comandante operativo annullò l’operazione.
Gli iraniani ne vennero a conoscenza il giorno dopo dalle tv statunitensi. Il risultato immediato fu l’evacuazione degli ostaggi in diverse località dell’Iran, per impedire un altro tentativo di salvataggio.
A succedere a Carter fu Reagan. Gli ostaggi furono liberati il 20 gennaio 1981 dopo l’insediamento del nuovo presidente alla Casa bianca, complice il fatto che i vertici della Repubblica islamica avevano altre gatte da pelare: il 22 settembre 1980 il raìs iracheno Saddam Hussein aveva invaso l’Iran e scatenato una guerra che sarebbe durata fino al 1988.
La crisi degli ostaggi resta uno smacco nella memoria di tanti statunitensi. Di certo è un brutto ricordo per il presidente Trump che dopo l’assassinio di Soleimani aveva minacciato, in caso di vendetta iraniana, di bombardare 52 siti culturali iraniani. 52 come gli ostaggi. Senza prevedere che il cigno nero avrebbe colpito a Teheran come a New York.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento